Paura e indifferenza ma anche voglia di mettersi in gioco. Intervista a Gioele Anni

Intervista a Gioele Anni, classe 1990, giovane giornalista impegnato nell’Azione cattolica.

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Gioele Anni, classe 1990, è un giovane giornalista impegnato nell’Azione cattolica. Ha partecipato molto attivamente al Sinodo sui giovani, con tanta voglia di futuro negli occhi e nella testa. Lo abbiamo incontrato e anche con lui siamo partiti dalla riflessione del sociologo Giuseppe De Rita che parla di due esigenze sociali, la sicurezza e il senso, alle quali rispondono le due autorità, quella civile e quella spirituale, da qui la responsabilità della Chiesa, intesa come istituzione e soprattutto come popolo dei credenti.

«Sicurezza e senso: mi sembra che per la mia generazione le due tematiche siano connesse e quasi sovrapposte. Cerchiamo una sicurezza che non riusciamo a vedere nel futuro, perché c’è una precarietà continua di vita che ti toglie l’orizzonte di senso. Quando tu non hai una prospettiva di stabilità perché mancano le opportunità per realizzarti professionalmente, e quindi per costruire la tua vita, dare forma ai tuoi sogni e aspirazioni, come ad esempio creare una tua famiglia, allora viene meno tutto, anche il senso. E su questo terreno ha gioco facile chi propone soluzioni semplicistiche, mescolando i due elementi. Ma lo spazio per un racconto diverso della vita c’è: è uno spazio ferito, che evidenzia la debolezza della mia generazione, di questa fascia di giovani italiani che viviamo la difficile situazione sociale ereditata dagli ultimi anni».

Il cittadino cattolico che vive una dimensione spirituale, cosa può o deve fare in questa situazione?

Per rispondere a questa domanda bisogna dare uno sguardo al contesto. Se penso ai giovani come me — io ho 28 anni — direi che la maggior parte di noi non ha avuto un rapporto strutturato con le esperienze di fede e di Chiesa. Moltissimi ragazzi sono transitati dalla parrocchia fino alla cresima, poi se ne sono andati e hanno sviluppato un’idea dell’esperienza di fede legata a stereotipi e pregiudizi. Un’idea di Chiesa-istituzione che, addirittura, non riesce a intercettare le domande profonde di senso. Sembra un paradosso ma è così, e questa considerazione è emersa spesso anche nel processo del Sinodo sui giovani. In questo contesto mi sembra che la prima missione per la nostra Chiesa, per la nostra comunità ecclesiale, sia proprio quella di stabilire un contatto con i giovani che si sono allontanati perché non hanno conosciuto l’esperienza di fede come qualcosa di vivo e vitale. Per prima cosa serve mostrare che l’esperienza di fede è appunto un’esperienza viva, un’esperienza di comunità, e che lì, pian piano, in un lungo percorso tu puoi trovare le risposte alle domande di senso che come tutti ti porti dentro. Serve costruire prima di tutto un tessuto di relazioni: così potremo andare oltre l’idea che la vita cristiana si riduca a un percorso funzionale a ottenere dei sacramenti. Questa idea stereotipata della vita di fede nasce anche dai pregiudizi che si hanno rispetto al mondo ecclesiale, spesso frutto di narrazioni mediatiche parziali. Penso in particolare ai casi di scandali clamorosi che non rendono ragione della grande maggioranza delle esperienze in cui le persone incontrano la Chiesa, al cui interno ci sono tanti uomini e donne dediti, lineari, esemplari.

Si capisce dalle tue parole che in realtà la tua è un’esperienza positiva ma che molti tuoi coetanei si sono fermati a un rapporto con la parrocchia abbastanza freddo. C’è qualcosa che non va nella parrocchia? Nella sua forma? Va ripensata? 

Parto proprio dalla mia esperienza: vengo da un contesto di parrocchia piccolissima, perché il mio paese — Bertonico, nella diocesi di Lodi — ha solo mille abitanti. È un’esperienza del “nucleo”, dove ancora la parrocchia è significativa perché è l’unica istituzione vicina alla gente insieme al Comune. Su questo nucleo c’è stato poi l’incontro con l’Azione cattolica, che in tutti i livelli mi ha fatto vivere un’esperienza di Chiesa-comunità, dall’Azione cattolica dei ragazzi alla dimensione del gruppo adolescenti. Poi un primo salto, per me, è stato nell’esperienza del Movimento studenti dell’Azione cattolica, quindi la prospettiva di un impegno concreto nella scuola: mi ha spinto a “uscire” dalla dimensione strettamente parrocchiale per portare una testimonianza lì dove passavo la maggior parte del mio tempo. Ai miei compagni di classe non “fregava” nulla della mia appartenenza ecclesiale, volevano solo capire se potevo offrire qualcosa di concreto. L’esperienza del Movimento studenti invita ad abitare gli spazi di protagonismo della scuola, ad animare le assemblee studentesche, le attività di approfondimento con altri studenti e docenti: uno studente cattolico, inserito in un gruppo, ha spazio per tante proposte anche semplici ma concrete. Alla base di tutto però c’è il dialogo con gli altri, perché se tu porti la tua identità di cristiano-cattolico e proponi solo attività che potresti benissimo fare in parrocchia, questo spazio di dialogo viene meno. Se invece dici: “Qui c’è una cosa concreta da fare, mettiamoci insieme per organizzare un’attività formativa, per organizzare un ciclo di incontri, per trattare in assemblea un tema che interessa a tutti”, allora lì anche dagli altri c’è un’apertura. Il punto d’incontro è sulla concretezza, non sulla base dell’ideologia: puoi trovare disponibilità a fare qualcosa insieme per il bene della comunità. Chiaramente lo stile con cui abitare questo dialogo è conseguenza di una formazione cattolica. 

Questa tua formazione, come incide nel tuo impegno? L’ispirazione che scaturisce dal Vangelo che ruolo gioca? Da come stai raccontando sembra che debba toglierti la “giacca del cattolico” per poter dialogare con gli altri, ma l’appartenenza cattolica non è una “giacca”. 

Direi due cose. Da un lato c’è l’impegno a cercare di trovare quei punti d’incontro, quelle tematiche, quegli spazi d’impegno concreto che possono interessare tutta la comunità, e non solo alla mia sensibilità di cattolico. È un frutto dello sguardo al “bene comune” che cresce in un’esperienza matura di fede. Il secondo punto su cui incide la formazione di credente è il riconoscere che nell’altro, anche se viene da un percorso diverso, c’è un valore, che l’altro mi può insegnare qualcosa. Provo a dirlo con una battuta: una volta abbiamo fatto in parrocchia un incontro su come vengono percepiti i cristiani nella società. Un adolescente ha risposto: “A me della Chiesa non piace questo: sembra che abbia ragione solamente chi ne fa parte”. Il problema è che a volte chi esce da percorsi di formazione come quelli parrocchiali entra poi negli ambienti di vita come portatore di una verità già pronta, che viene proposta senza spazi di mediazione. L’approccio di un dialogo pragmatico, a mio parere, non mette in discussione i nostri valori, ma spinge a trovare prima di tutto i punti d’incontro, come dice il Papa: quei punti che ci uniscono e che sono maggiori di quelli che ci dividono. Da lì si può partire per costruire qualcosa insieme. Primo passo quindi è cominciare ad ascoltare l’altro in cui, anche se non è credente, siamo convinti che ci sia un frammento di Vangelo, un frammento di verità, e da qui partire per costruire qualcosa a partire da ciò che praticamente puoi fare lì dove sei, come sei.

Quindi ad attirarti e coinvolgerti è stata soprattutto l’Azione cattolica?

Sì. Come dicevo, la possibilità di mettermi in gioco concretamente nello spazio della scuola è stata una prima svolta nel mio percorso, utile a uscire dalla logica che la fede cristiana si vive solo nel contesto della parrocchia. Poi altre svolte, a livello molto personale, sono state delle esperienze di servizio, di volontariato, una in particolare in Abruzzo dopo il terremoto, nel 2010. Quell’esperienza mi ha aiutato — come dire — a “de-intellettualizzare” la mia vita di credente. Con questo termine mi riferisco al fatto che forse la formazione che ho ricevuto (insieme alla maggior parte dei mie coetanei) era stata improntata a imparare bene dei concetti, ad apprendere e conoscere bene il catechismo. Forse a volte è mancata un po’ di esperienza concreta. I momenti di volontariato, in particolare questo con le vittime del terremoto, mi hanno portato a pensare: “Qui non spiego niente a nessuno, non devo raccontare che cos’è per me la fede, non devo difendere delle posizioni o delle scelte etiche. Qui sono io con quello che ho, poco o niente, eppure quello che metto a disposizione degli altri può essere utile”.

La tua sensazione è che i giovani della tua generazione siano rimasti a questo approccio intellettuale della fede? Cioè, hanno incontrato una Chiesa che ha proposto solo concetti?

Credo che l’idea di fondo sia questa, perché forse il percorso che ti porta fino ai sacramenti viene ancora associato al percorso scolastico: in qualche modo, la scuola e il catechismo viaggiano quasi paralleli.

Hai in mente una forma alternativa? 

I problemi sono tanti e complessi. Ad esempio al Sinodo sui giovani qualcuno proponeva di spostare più in là il momento della cresima, affiancando il percorso dottrinale a un percorso esperienziale. Sono ragionamenti che vanno studiati e approfonditi nelle giuste sedi, però intanto mi sembra un’intuizione interessante: maggiore spazio alle dinamiche esperienziali. Anche su questo l’Azione cattolica in qualche modo ha lavorato: la “scelta esperienziale” risale già al dopo concilio, ma è un processo che sempre si può aggiornare e ampliare. Mi sembra che le esperienze di Chiesa che attirano i giovani sono quelle che inizialmente ti chiedono di dare un contributo su qualcosa che tocca la tua vita. Poi in un processo, con l’accompagnamento di adulti, con l’accompagnamento di una comunità, arriviamo insieme a definire perché tu ti impegni, che cosa c’è di più profondo in questa tua voglia di spenderti per un bene anche molto concreto, molto semplice. 

Ti dico queste due parole: paura, rancore. Appaiono i sentimenti prevalenti oggi nella società occidentale, contemporanea. Sei d’accordo?

Ne aggiungerei un terzo, che è l’indifferenza. Mi pare che la mia generazione sia soprattutto impaurita; non direi rancorosa, forse questo è un sentimento che appartiene più agli adulti. Riprendo quello che diceva De Rita: il rancore che nasce dalla promessa di futuro che non si è realizzata. Dopo lo choc economico del 2008 abbiamo sentito parlare così tante volte di crisi, di opportunità che vengono meno, da pensare già in partenza che il nostro futuro sarebbe stato peggiore del presente. Questo non ha sviluppato rancore, ma direi una forma di indifferenza alle dinamiche di comunità, perché in fondo devo prima di tutto pensare a salvare me stesso. Quindi direi più paura e indifferenza in questa accezione, per cui non ho tempo di preoccuparmi degli altri, della mia comunità, dal momento che ho bisogno di mettermi prima al sicuro, perché il futuro non c’è per tutti. E questo non fa per forza di me una persona arrabbiata, però mi chiude alla relazione con gli altri. 

Allo stesso tempo però non penso che il nostro tempo sia caratterizzato solo da sentimenti negativi. C’è una disponibilità a mettersi in gioco nuova, diversa. Ne abbiamo parlato spesso durante il Sinodo. Mentre forse gli adulti hanno ancora un’idea di appartenenza ideologica, dove tu sposi una causa e ti senti partecipe, noi abbiamo una forte disponibilità ad attivarci su cause concrete e vicine. Penso a tutti i movimenti ambientalisti, a partire dai Fridays For Future lanciati da Greta Thunberg. Se la questione ci tocca direttamente, se ci rendiamo conto che qualcosa deve cambiare perché così non possiamo andare avanti, sentiamo il desiderio di metterci in gioco.

Alcune persone che ti hanno preceduto in questa serie di interviste, ad esempio il poeta Davide Rondoni, si sono soffermate sull’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo, riflettendo su una possibile mutazione antropologica. Per te che sei quasi un nativo digitale, come sono cambiati i desideri profondi? Come si vive la dimensione dell’affetto e delle relazioni in un’epoca così tecnologica?

Il primo dato è che noi abbiamo un senso di comunità molto più largo. Facciamo delle esperienze, almeno noi giovani del mondo occidentale, che forse la tua generazione iniziava a fare: i viaggi all’estero, l’Erasmus, le vacanze studio estive. Esperienze che ti portano ad avere un senso di appartenenza che è più ampio del paesino, della regione. Credo che questo sia un dato positivo. Abbiamo il mondo in tasca e ci sentiamo cittadini di questo mondo. Ci sono grandi e piccole cause che mettono in moto i giovani in tutto il mondo, in un modo che trenta o quaranta anni fa probabilmente non era pensabile. Questa mi sembra la cosa più interessante. 

Allo stesso tempo mi sembra che le tecnologie portino sempre più a vivere le relazioni dentro delle “bolle”. Se ho una chat di WhatsApp con i mie amici, con la mia compagnia storica, posso andare a scuola e non avere relazioni con i compagni di classe, perché i miei affetti ce li ho in chat. Quello che m’interessa lo condivido con un post, lo condivido scrivendo sul gruppo. Paradossalmente, l’apertura amplissima di cui ti parlavo in realtà rischia di ridursi. Se andiamo poi sulle questioni tematiche, l’effetto “bolla” creato dai social si fa ancora più forte. Il radicamento di posizioni sempre più estreme è anche legato alle modalità di funzionamento di Facebook, Instagram, Twitter: io giovane di oggi posso aver accesso a dei contenuti molto ristretti ma avere la sensazione che tutti la pensino come me, che quello sia l’unico pensiero. Come sempre, strumenti nuovi scatenano dinamiche positive e negative, anche accentuate in un senso o nell’altro.

Il ruolo della Chiesa, delle nostre comunità e dei nostri gruppi, può essere allora quello di aiutarci a far uscire ciascuno dalla sua piccola bolla e di creare (o ritrovare) spazi fisici d’incontro e di dialogo. Forse solo noi, come Chiesa — o anche la scuola, con cui la stessa Chiesa spesso riesce a dialogare — possiamo riconoscere l’urgenza di mettere insieme persone che altrimenti non avrebbero dove incontrarsi, senza avere la tentazione di guardare alla carta d’identità, stimolando processi inclusivi di costruzione del bene comune, del bene possibile. 

Forse si è caricata di troppa aspettativa la comunicazione, cioè il fatto che viviamo l’epoca delle comunicazioni così potenti, così pervasive. Però forse la comunicazione, considerata dal punto di vista meramente tecnico, non basta.

Non è solo comunicazione, è senso di appartenenza. Cercavo di spiegare a mia madre cos’è nato con la serie tv Il Trono di Spade. È sorto un universo in cui ritrovarsi e raccontarsi con tante persone di tutto il mondo, condividere le proprie impressioni, ciò che quella storia ti ha detto. Stiamo ore su Facebook o su Twitter non tanto perché abbiamo qualcosa da comunicare, quanto perché vogliamo sentirci parte di una comunità che condivide il nostro interesse: una serie tv, il calcio, persino le questioni di Chiesa! Ci sono delle pagine Facebook che sono super frequentate e attivissime. Certo, se io condivido i miei interessi solo con persone con cui ho un contatto virtuale, diventa un problema, perché non sempre nella vita ho a che fare con comunità che mi scelgo: sul posto di lavoro, a scuola, non ci sono solo persone con le mie stesse sensibilità. Abbiamo quindi bisogno di vivere esperienze concrete, fisiche, di ascoltare opinioni diverse, modi di pensare diversi. In questo senso, forse, il mondo ecclesiale fa ancora fatica ad accettare che gli spazi virtuali sono spazi profondamente reali. Il Sinodo sui giovani ha posto il tema e ci ha lavorato, ma la narrazione è ancora quella della rete che ti estranea, che ti toglie vita, invece è un ambiente dove la vita c’è, a tutti gli effetti.

Se io dico politica tu che dici? 

Dico che è una cosa complicata e invece ce la vendono semplice. La politica è difficile. È l’arte della mediazione. Come quando fai politica a scuola, all’università, e lì ti rendi conto che devi trovare punti d’incontro fra persone dello stesso gruppo che la pensano diversamente, tra giovani, e poi devi interfacciarti con gli adulti. A noi invece viene spiegato che la politica è l’arte dell’imporsi, del mandare il messaggio più convincente. E le “bolle” di cui dicevo prima, che sono sempre più ridotte, sono funzionali a questa narrazione: quando il mio messaggio raggiunge il target di riferimento e faccio breccia, passo per il più bravo. Mi sembra che l’uso pubblico dei simboli cattolici faccia un po’ parte di questa dinamica, di una semplificazione strumentale che punta a convincere chi fa fatica a comprendere questa complessità.

Quindi come bisognerebbe fare per agire in politica diversamente? I giovani della tua età fuggono dalla politica. 

Sì, fuggono, e mostrano segni di apparente disinteresse. L’astensione non è però del tutto una fuga come ha notato il sociologo Alessandro Rosina analizzando il voto del 4 marzo: i giovani votano chi c’è e fa proposte magari un po’ estreme, oppure si astengono perché intendono dare un segnale, non per disinteresse. Allora, prima che gli spazi della politica partitica, serve innanzitutto valorizzare quelli dell’impegno nella scuola, nell’università, nel sindacato, nella comunità civile. Lì ti formi e ti rendi conto di cos’è l’esperienza politica. E poi c’è bisogno di un enorme lavoro di ricostruzione dei contesti complessi, che vuol dire riuscire a scappare dalla logica del muro contro muro continuo. È chiaro che i messaggi divisivi fanno più breccia, ma mi sembra che le esperienze più efficaci siano quelle che riescono ad aiutare le persone a comprendere i contesti piuttosto che dire “a un messaggio A rispondo con un messaggio B”. Anche se questa operazione richiede molto più tempo.

Un’altra parola: sinodalità; il Papa insiste su questo.

Il Sinodo dei giovani è stata una figata, non so se si può dire su «L’Osservatore Romano». È stata esperienza di sinodalità, l’assemblea sinodale in particolare, ma anche tutto il processo. È un metodo che ha bisogno di tempi lunghi, anche lunghissimi. Il Sinodo dei giovani è iniziato due anni fa ma la sua attuazione sarà molto lunga e avrà bisogno di essere seguita tanto quanto l’evento, perché, altrimenti se la sinodalità si riduce a un evento, si perde; siamo pieni di convegni e di appuntamenti che poi si sono persi. È stata un’esperienza entusiasmante perché ha messo insieme tante differenze: di provenienza, di età, di cultura. Anche nel contesto italiano, però, abbiamo tantissime differenze, tra nord e sud, tra età diverse. Il Sinodo le ha messe insieme dando spazi per vivere momenti formali e informali. Questi ultimi in particolare sono stati decisivi perché hanno permesso di muovere molto profondamente gli affetti. Davanti ad alcune storie di giovani, penso ai giovani dell’Iraq, ad alcune storie di sofferenze e di marginalità, ma anche davanti a storie semplici di comunità cristiane vive e significative, c’è stato un continuo emozionarsi, commuoversi. Ho visto anche i vescovi, anche il Papa, emozionarsi fino alle lacrime, alcuni vescovi facendo i loro interventi hanno pianto. L’incontro con i giovani, soprattutto con i giovani ai margini, nei racconti, anche nella presenza dei questionari che erano stati inviati alla riunione del pre-sinodo ha mosso gli affetti della Chiesa. Tutto il processo, in definitiva, è stato un primo passo per recuperare lo stile dell’informalità, almeno con i giovani. Ricapitolando: riscoprire l’informalità, darsi tempi lunghi e muovere gli affetti sono gli ingredienti che ho riscontrato nella sinodalità. Penso che possano essere elementi che fanno bene anche alla Chiesa italiana in questo orizzonte di lungo periodo per andare ad attingere alle sorgenti vive. Avrei molta paura di un sinodo della Chiesa italiana “romanocentrico”, credo invece che ci serva la periferia, portarla un po’ dentro, uscire un po’ dal centro. Andare nelle periferie e vedere che cosa si muove, che esperienze belle stanno già nascendo spontaneamente. Davvero la realtà è più importante dell’idea: in tanti casi noi pensiamo di dover progettare chissà che cosa, poi andiamo nel gruppo più scalcagnato di provincia e vediamo che ci sono delle cose stupende. 

Ha ragione Matteo Truffelli quando dice, su questo giornale, che c’è una dinamica della sinodalità che va molto oltre l’evento. Un evento sinodale forse potrebbe essere interessante se pensato in due tempi: un momento di sinodalità a livello locale, parrocchiale, diocesano e poi il confronto con l’autorità dei vescovi a Roma. Partiamo dal concreto: che cosa vuol dire essere parrocchia sinodale? Che vuol dire fare sinodalità in parrocchia? Penso che le dinamiche che raccontavo prima si possano portare anche a livello parrocchiale. E poi c’è un confronto con chi ha un ruolo di autorità che è fondamentale per l’esercizio della sinodalità, dove l’autorità deve mettersi al servizio e far crescere tutte le varie parti della comunità. Più vai nel locale e più invece è difficile trovare autorità che si mettano al servizio delle comunità. E non parlo solo di mondo clericale; anche i laici, nel piccolo contesto, nella piccola associazione, a volte sembrano cercare quasi un piccolo spazio di potere.

In conclusione mi sembra che questo è un tempo bello di Chiesa, e direi che anche nello spazio politico ci sono dei fermenti interessanti; c’è anche qualche scenario preoccupante, qualche narrazione che fa un po’ paura, però è bello abitare questo momento, è bello vedere questa Chiesa che è Chiesa in uscita, nel senso che cerca di dialogare con i giovani, con gli adulti, con tante realtà. È bello essere giovani oggi ed è bello far parte della Chiesa oggi. Questa mi sembra la cosa principale che anche nelle attività delle varie associazioni, movimenti, nell’Azione cattolica, nelle parrocchie, è bello far emergere. Non cediamo alle profezie di sventura, come ha detto il Papa iniziando il Sinodo dei giovani.