Per il piano di rinascita dell’Italia necessarie le riforme istituzionali

abbiamo bisogno di una inversione di marcia ad U

Era forse necessario che si toccasse il punto più basso del senso di solidarietà, coesione ed unione tra i ventisette Paesi che attualmente costituiscono l’Unione Europea e che arrivasse poi dall’esterno lo tsunami della pandemia del Covid-19  perché il processo di costruzione del sogno dei nostri Padri, per uscire finalmente dalla più grande tragedia della storia europea e mondiale, riprendesse vigore. Non c’è dubbio, infatti,  che quello stesso “spirito”, che animò la famosa Conferenza di Messina di 65 anni or sono  rilanciando il processo di integrazione europea, si sia sentito aleggiare il 27 maggio scorso nell’aula del Parlamento  Europeo durante il discorso con il quale la presidente della Commissione, Ursula von der  Leyen, ha presentato al Parlamento UE il Recovery Instrument per la ripresa economica post Covid agganciandolo al bilancio dell’Unione 2021-2027: un mix di contributi (a fondo perduto) e di prestiti agevolati a tassi bassi e scadenze molto lunghe a favore dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi per un valore complessivo di circa 750 miliardi di euro. 

In virtù di questo intervento, al di là di quale sarà l’esito finale del negoziato, l’Europa  ha mostrato di volersi liberare dall’egemonia dei Paesi “frugali” ed ha, finalmente, rilanciato la propria integrazione. Che non può essere fondata che sulla coesione e lo sviluppo (sostenibile) di tutti  i Paesi aderenti. A cominciare dall’Italia che deve assolutamente recuperare il divario di crescita economica e di produttività che ormai da oltre venti anni la caratterizza nei confronti degli altri Paesi europei. Per questo ha fatto bene il nostro Presidente del Consiglio a parlare subito di un “piano strategico” per consentire all’Italia di trovarsi pronta all’appuntamento di programmare ed utilizzare i fondi europei che verranno messi a disposizione (173 mld. di euro) e che richiedono un nuovo patto fra le forze produttive e le forze sociali del Paese. Naturalmente si dovrà agire all’interno delle priorità europee: green deal, digitale e necessità di aiutare i settori più colpiti dal Covid. Oltre ad essere coerenti con le raccomandazioni che annualmente l’Europa invia a tutti i governi. Ma non vi saranno condizionalità se non di natura temporale (il 60% andrà impegnato entro il 2022 ed il resto entro il 2024) e se si esclude, come ha ricordato Valdis Dombrovskis, la penalizzazione di una rata se “non si rispetteranno le priorità concordate”.

Per il resto, tutto è nella responsabilità del nostro Paese che con lodevole tempestività, questa volta, non si è lasciato cogliere impreparato ed ha già cominciato ad individuare i pilastri portanti di questo piano che, diciamolo subito, dovrà evitare un ulteriore allargamento delle disparità tra le Regioni, in particolare, del Nord e del Sud. Ed, a tal proposito, va precisata una cosa: che queste risorse che l’Europa ci destina trovano la loro motivazione nel fatto che nel nostro Paese vi è un’area come il Mezzogiorno a ritardo di sviluppo. Se non ci fosse, essendo uguale a quello dei fondi strutturali il motivo dell’assegnazione, questi fondi non arriverebbero o, comunque, non arriverebbero in questa consistenza . Questa circostanza, allora, non va dimentica. Né da parte del decisore statale, che ha il ‘vizietto’ di utilizzare le risorse strutturali per sostituirle a quelle ordinarie e così impedire sistematicamente che diventino aggiuntive a queste ultime, né da parte dell’opinione pubblica dominante ben supportata da tutto l’apparato dei mass media imperante che potrebbe avere facile gioco, in questa contingenza del Covid-19, a sostenere una indubbia crisi di funzionalità del sistema economico del Nord che bisogna rimettere in moto.

Ora, invece, a questo proposito, è di una inversione di marcia ad U che abbiamo bisogno in ordine all’idea di sviluppo che deve guidare questa nuova fase di rilancio del nostro Paese. Non più legata all’immagine della locomotiva del Nord che si trascina i vagoni del Sud ma ad una visione pluricentrica del Paese che cambi le priorità rispetto a quelle finora avute, a cominciare dal piano infrastrutturale che non può certo tollerare, ad esempio, che l’alta velocità si fermi ‘ad Eboli’. Piuttosto, come ha detto il presidente Giuseppe Conte, “questo è il momento per alzare la testa e volgere il nostro sguardo al futuro e, abbracciando questa prospettiva con coraggio e visione, trasformare questa crisi in opportunità”.

Per realizzare ciò e, finalmente, recuperare il divario di crescita economica e produttiva nei confronti degli altri Paesi europei ci sono allora delle azioni indispensabili che devono essere poste in essere e che già Conte, come abbiamo detto, ha cercato di delineare in un piano strategico articolato in sette punti. Si va: dalla modernizzazione del Paese con l’introduzione di incentivi alla digitalizzazione, ai pagamenti elettronici e all’innovazione, alla moltiplicazione degli strumenti utili a rafforzare la capitalizzazione e il consolidamento delle imprese anche al fine di sostenere l’attività delle filiere produttive nella fase di ripresa; dalla azione di rilancio degli investimenti pubblici e privati e di drastica riduzione della burocrazia, alla transizione verso un’economia sostenibile, legata al green deal europeo associato a nuove forme di tutela e promozione del territorio e del patrimonio paesaggistico e culturale; dalla decisione di puntare su un grande investimento per il diritto allo studio e per l’innovazione dell’offerta formativa alla determinazione di abbreviare i tempi della giustizia penale e della giustizia civile; per finire con la introduzione di una seria riforma fiscale che abbatta l’attuale fisco iniquo ed inefficiente sostituendolo con una disciplina organica che ripristini l’equità e la progressività del sistema tributario. 

Sono tutti obbiettivi condivisibili ed irrinunciabili che, però, a mio parere non posseggono nella loro pur inappuntabile connotazione tecnica la capacità di superare la soglia della “manutenzione dell’esistente”, come direbbe Graziano Delrio, perché non preceduti e completati dall’impegno per la indispensabile riforma della governance sia a livello territoriale interno che dei rapporti con le regioni extra-nazionali limitrofe. Questo è il punto decisivo. Senza un cambiamento delle amministrazioni locali e, soprattutto, delle regioni, in particolare, quelle del Mezzogiorno mancherà sempre il soggetto che dovrà attuare  questa svolta riformista ed il recovery plan si trasformerà in    uno qualsiasi dei vecchi programmi europei che inevitabilmente fallirà l’occasione storica che abbiamo a disposizione sia come Italia che come Europa.

Per evitare un tale esito, allora, bisogna puntare sulle Comunità locali. Non solo però, come ricordava ieri il sindaco di Milano, Beppe Sala, sulle Città metropolitane -che ormai sono da considerare più come “Città-Universali” che come “Città-stato”- ma anche sulle Unioni di Comuni  che nella loro aggregazione di aree ‘interne’ più ecologiche delle grandi Città avrebbero, inoltre, la capacità di dare risposta al problema forse più grave posto dalla pandemia che ci ha colpito. Del resto, come dimostra anche la storia millenaria di questa nostra area del Mezzogiorno, il ruolo propulsivo dello sviluppo è stato sempre svolto dai Comuni e dalle loro aggregazioni. E poi il loro contributo sarebbe addirittura determinante perché renderebbe partecipi di questa strategia di sviluppo i cittadini dei vari territori interessati, contribuendo così a colmare il deficit democratico di cui soffrono non solo le istituzioni europee ma anche quelle nazionali.

Vengo, ora, all’altra riforma istituzionale cui facevo cenno e che interessa quasi esclusivamente il Mezzogiorno. Tenuto conto che già le due macroregioni esistenti (EUSAIR e EUSALP), che coinvolgono quasi tutte le altre regioni italiane, ‘coprono’ la restante parte del territorio nazionale e partecipano a pieno titolo al processo di formazione e deliberazione della programmazione dei fondi strutturali europei e quindi del costituendo recovery plan

Mi riferisco, invece, alla costituzione della Macroregione del Mediterraneo Occidentale (ed anche Centrale, se si vuole) che sarebbe peraltro la risposta tardiva ad una sollecitazione venuta dall’Unione Europea sin dal 2009 e tendente ad implementare quanto previsto dal Trattato di Lisbona in ordine ad una nuova forma del principio di sussidiarietà. Essa, come indica espressamente la normativa europea, è uno strumento per la migliore attuazione della coesione territoriale che si affianca alla coesione economico-sociale. E mira ad evitare la dispersione delle risorse che concentra nel tentativo di risolvere alcuni problemi comuni a più entità statali e sub-statali in settori determinati dalla pluralità dei soggetti partecipanti. Da qui la sua natura funzionalista  capace di abbattere i confini politico-amministrativi entro cui, ad oggi, sono costretti Stati, Regioni ed Enti territoriali vari. Circostanza, quest’ultima, che consentirebbe ad un unificato Mezzogiorno d’Italia, al pari di quanto già avvenuto per le regioni dell’area adriatico-jonica e di quella alpina, di realizzare il coinvolgimento di Regioni e Comunità di altre Nazioni europee come, ad esempio, la Catalogna, l’Andalusia, la Costa Azzurra, la Corsica, le Baleari, Malta. Ed anche Città e territori dei Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Perché è ben risaputo che il bacino del Mediterraneo è espressione di una medesima realtà storica e culturale, nata e sviluppatasi nel medesimo ambiente naturale.

Bene! Se ora si adottasse una prospettiva siffatta, sicuramente si potrebbe contribuire ad attenuare le contraddizione prodotte da una globalizzazione che mortifica i diritti dei più deboli, alimenta la disoccupazione e la povertà, favorisce le migrazioni e mette a repentaglio la sicurezza e la valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale. È necessario, però, che il Governo ne prenda in mano il bandolo. E, poiché è una riforma che non abbisogna di leggi costituzionali e né meno ordinarie, compia subito quegli atti di indirizzo politico che sono necessari per richiamare le Regioni e le Città interessate ad organizzarsi, anche con apposite strutture di supporto, per tessere la rete dei rapporti indispensabili a creare le convergenze sui tre-quattro pilastri che si converrà dovranno costituire  la nuova strategia politica di sviluppo non più autarchico ma comunitario. È questo, infatti,  il passaggio-chiave che può significare finalmente l’avvio della Macroregione Occidentale del Mediterraneo e con esso quell’inversione di tendenza istituzionale che è indispensabile alla definizione di un vero  grande piano di ricostruzione del Paese e di rilancio del suo ruolo di protagonista indiscutibile del processo di integrazione europea, come appunto la Conferenza di Messina del 1955  ci ricorda.

Concludo, dicendo che ciò che non deve accadere è che il nostro Paese sprechi questa occasione storica della svolta operata dall’Unione Europea considerando il Recovery fund un pozzo dal quale “prendere i soldi e scappare” e non, invece, la grande opportunità per correggere il proprio sistema di distribuzione ed utilizzazione delle risorse nei vari settori e nelle singole aree geografiche. Secondo “un piano di rinascita per superare i problemi strutturali”. E così dando avvio ad “nuovo inizio”, come proprio ieri ha detto Conte.

  Se c’è stato un cambio di paradigma in Europa, deve esserci anche in Italia. C’è bisogno di visione e capacità di realizzazione. E, soprattutto, che i nani ed i ballerini ritornino a fare il loro mestiere.