Chi di noi ha visto con simpatia la disponibilità di Calenda a mettersi in gioco per la partita delle amministrative del prossimo anno, può anche ammettere che l’avvio di questo percorso esige uno sforzo di comunicazione più impegnativo, per far crescere un serio disegno politico per la città di Roma. In rapida successione si sono manifestati, nell’opinione pubblica, sentimenti di curiosità e diffidenza, se non qualche principio di ostilità. Tuttavia, nella fase attuale, conta già molto che la discussione si svolga al riparo da pregiudiziali e incomprensioni. Con buona volontà andrebbe chiarita l’intenzione che guida un’ipotesi di candidatura a Sindaco. A giorni, comunque, se ne saprà di più.

A mio parere, non credo che Calenda scelga di presentarsi per un capriccio, né voglia ridurre l’arco delle aspettative suscitate dal suo accennato proposito, comunque destinato a sciogliersi entro la settimana, secondo i bene informati, in annuncio ufficiale. Siamo in presenza di un terremoto che prende origine dal voto referendario di qualche settimana fa, segnato a Roma e in tutte le grandi città da una maggiore consistenza dei No rispetto alla media nazionale del Si, attestatasi intorno al 30 per cento. Gli analisti delle dinamiche elettorali indicano che quest’ultimo risultato dipende dal contributo di ceti medi e medio-alti, da giovani con buona formazione universitaria, quindi da gruppi e strati sociali, insomma, tutt’altro che marginali o ininfluenti. È un blocco sociale, nel complesso, che esprime il netto rifiuto della politica populista.

Se il fenomeno si prende per la coda, immaginando di anestetizzare l’effetto anche doloroso di questo sommovimento, è probabile che per un attimo si possa catturare una sensazione di apparente sicurezza. Invece la domanda di novità, insita nella reazione al declino della città e del Paese, può deragliare verso una vera e propria contestazione politica a danno di tutte le forze di governo, e del PD in primis. Non ha senso mostrare i muscoli, perché in alcuni casi – e siamo esattamente in questa condizione – la forza non garantisce la ‘verità’ di un processo evolutivo, ovvero la costruzione di equilibri adeguati alla richiesta di mutamento che proviene dalla società civile.

Bisogna essere coraggiosi. Invece che dalla coda, il fenomeno va affrontato e governato dalla testa, senza indugi paralizzanti o esclusioni a priori. I riformisti hanno questa responsabilità, a maggior ragione ce l’hanno i più giovani tra di essi, quelli che sono del resto più vicini, esistenzialmente e politicamente, a questa dinamica di trasformazione che investe in prima battuta e in maniera diretta la Capitale del Paese. Pertanto a Calenda va richiesta una presenza all’interno del dibattito odierno, e più in generale una apertura mentale nei confronti di uno schema di coalizione. Noi democratici, dal canto nostro, abbiamo invece l’obbligo, ora più di prima, di farci promotori di un processo in cui Calenda venga incluso e considerato come uno tra gli elementi predominanti della ripartenza di Roma.  Solo così, confermando la sua predisposizione a giocare controcorrente, potrebbe essere in grado di trascinare un ampio schieramento di forze sul terreno di una bella e feconda rigenerazione della politica democratica. Processo all’interno del quale il PD deve obbligatoriamente far parte, e giocare un ruolo di costruzione.

È una partita da giocare tutta all’attacco, se non vogliamo che l’ansia di novità si traduca in un paradossale rilancio di un mix di astiosità e immoderazione di cui la destra di Salvini e Meloni, a Roma più forte che altrove, è ampiamente tributaria.