Per gentile concessione pubbblichiamo l’articolo apparso nell’ultima edizione del giornale ufficioso della Santa Sede. L’autore fa luce sulle caratteristiche di una competizione, in programma oggi, ancorata a un ciclismo pressoché leggendario. 

Filippo Simonelli

La Parigi-Roubaix non è una corsa ciclistica come le altre. Il suo nome evoca già qualcosa di leggendario anche alle orecchie di chi non mastica questo sport; le immagini dei ciclisti coperti di fango a pedalare nella pioggia che bagna quasi sempre le sue strade piacciono a tutti in fondo, tanto a chi è appassionato quanto a quelli che sono convinti che fosse bello solo il ciclismo eroico di una volta, di cui la Roubaix è un po’ l’epitome. Dopo lo stop dovuto al covid quest’anno gli atleti, e per la prima volta anche le atlete, correranno di nuovo sulle strade mitiche a cavallo tra Francia e Belgio e a competere per vincere uno dei mitici “sassi” che spettano al vincitore. Oltre ovviamente alla gloria eterna.

Nonostante lo sviluppo tecnologico e i ciclisti sempre più specializzati, la “Course” non ha mai perso alcuni tratti fondamentali della sua natura. È una corsa dura, crudele, e persino irrazionale: si chiama Parigi-Roubaix, ma sono un po’ di anni che oramai il peloton parte da Compiègne, una cittadina distante una cinquantina abbondante di chilometri da Parigi. La sede di partenza della corsa si è effettivamente spostata parecchie volte nei quasi centoventi anni di esistenza, ma il nome è rimasto quello originario. Non poteva essere altrimenti.

D’altronde, se si legge Parigi-Roubaix si pensa subito al suo diabolico soprannome, L’Enfer du Nord: quello che vivono i corridori nei numerosi settori di pavè, le fatidiche strade a ciottoli che sono sopravvissute al progresso e alle colate di cemento nelle campagne tra Francia e Belgio.

E a proposito di incoerenza, la Foresta di Arenberg, il tratto di pavè più noto e probabilmente anche uno dei più decisivi di tutta la corsa, è stato introdotto poco più di cinquant’anni fa e non ha battezzato neppure la metà delle edizioni. Due chilometri di strada dentro l’omonima foresta, circondate da una folta vegetazione, e il selciato è ancora più ristretto per via delle transenne che contengono il pubblico che si riversa adorante a bordo strada con qualsiasi condizione meteorologica. Da alcuni anni esistono dei comitati che hanno letteralmente adottato i vari tratti di pavè, custodendoli con una cura quasi genitoriale; le foto che stanno condividendo i canali della corsa sui social network sono commoventi, e non è un’iperbole.

L’inserimento di questo tratto nella corsa nasce poi da una necessità singolare e apparentemente controintuitiva: con la fine della Seconda guerra mondiale e la successiva ricostruzione, molte strade del nord della Francia e del Belgio erano state asfaltate, sacrificando numerosi tratti di quel selciato simbolo delle prime edizioni della corsa. Questa dunque rischiava di trasformarsi in una gara “normale” per velocisti: lunga e pianeggiante, vide addirittura degli arrivi in volata, senza che nulla potesse fare la dovuta selezione. Per far fronte a questa sciagurata assimilazione, l’organizzatore della corsa Jacques Goddet aveva iniziato una perlustrazione delle campagne locali alla ricerca di nuovi settori di pavè assieme a gente del luogo ed ex corridori. 

Fu l’intuizione di uno di questi, Jean Stablinski, a condurlo in un bosco nella zona di Wallers, appena sopra una miniera di carbone che dopo la chiusura sarebbe diventata anche set cinematografico per una resa filmica di Germinal di Zola. Stablinski quella miniera la conosceva bene: era lì che aveva lavorato in gioventù per potersi permettere l’acquisto della sua prima bici da corsa.

Lo spettacolo agli occhi di Goddet non deve essere stato il massimo: l’organizzatore era talmente spaventato dai possibili rischi che un passaggio della corsa lì che ci vollero generose quantità di vino per farlo acconsentire ad un primo passaggio di quell’edizione per il pavé, ma a condizione che se ci fossero stati incidenti, la si sarebbe abbandonata per sempre. Il fato volle diversamente, almeno per quella fatidica edizione, decretando così la nascita della leggenda della Foresta di Arenberg.