Il premier Draghi ha presentato al Parlamento il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ed il Parlamento gli ha dato il via libera.
Notizia positiva, naturalmente.

Che va colta, tuttavia, come una scommessa tutt’altro che semplice.
Superfluo – ma forse no – ricordare che la gran parte della gigantesca quantità di risorse finanziarie mobilitate dal Piano sono prestiti europei che andranno restituiti.
E che si aggiungono alla mole di debito pubblico che l’Italia ha già maturato nel corso dei decenni passati.

Anche se l’Unione Europea deciderà, come è probabile, di prorogare ulteriormente la sospensione del Patto di Stabilità (con riferimento al rapporto tra PIL, deficit e debito), la tenuta finanziaria del Paese non sarà comunque uno scherzo da poco.
Qualcuno auspica l’ipotesi di una sorta di cancellazione (o ristrutturazione) generale del debito pubblico.
Ipotesi suggestiva, che avrebbe una sua plausibilità, ma – ad oggi – assai poco realistica.

Certi e noti sono invece – almeno a chi li vuole vedere – i vincoli che il Piano prevede sul terreno delle cosiddette “riforme strutturali”.
Parole che la cattiva politica ha spesso associato ad una indebita “ingerenza europea” o dei “mercati”, ma che – in realtà – non evocano niente di più e niente di meno che l’intrinseco dovere del nostro Paese di diventare “adulto”.

E di superare le pigrizie e le contraddizioni istituzionali, amministrative, sociali ed economico-produttive che hanno fin qui consumato in modo immorale le risorse delle nuove generazioni; compromesso la produttività del sistema; indebolito la nostra capacità di competizione internazionale; privilegiato la rendita sull’investimento e cristallizzato uno strisciante patto corporativo diffuso, spesso opaco e pervasivo.

Senza questa radicale trasformazione del sistema Paese, non illudiamoci che il fiume di risorse europee ipotizzato arrivi veramente e che, in ogni caso, anche se arriva, possa tradursi in una vera stagione di “ripresa e resilienza”.

Questa consapevolezza deve interrogare tutti, compresi i cittadini e le forze sociali ed economiche, ma pone almeno due enormi interrogativi alla politica.

Il primo interrogativo politico riguarda la durata della “stagione Draghi”.

La portata e la oggettiva difficoltà del “sentiero di trasformazione” che il Piano comporta appaiono del tutto incompatibili con i tempi residui della presente Legislatura.
Come minimo, serve tutto il periodo di quella successiva, nel corso della quale, tra l’altro, arriveranno al pettine i primi nodi di finanza pubblica derivanti dai nuovi debiti che stiamo assumendo.

A Bruxelles e ai mercati finanziari Draghi ha offerto la sua credibilità come garanzia del percorso virtuoso che il Paese intende intraprendere.

Qualcuno può seriamente immaginare che, nel giro di un anno o due, tale garanzia (cioè Draghi a capo del Governo) possa venire meno?

La stessa ipotesi ventilata di Draghi al Quirinale alla scadenza del mandato di Mattarella sarebbe ancor più rischiosa, perché comporterebbe necessariamente la fine del Governo (e della Legislatura) entro la prossima primavera, con tutto ciò che questo potrebbe provocare.
Gettato il sasso della “trasformazione del Paese” con il Piano approvato dal Parlamento (per convinzione o per necessità che sia) a me pare che l’unica prospettiva ragionevole sia quella di una stagione temporalmente adeguata di stabilità e di continuità della sua attuazione, sotto la guida e con la garanzia di chi oggi ne ha consentito la partenza. Inutile ed irresponsabile girarci attorno.

Ed anche così non sarà certo una passeggiata per un Paese che da decenni non è più abituato (e stimolato) a mettersi in discussione, a tutti i livelli.
Perché un conto è fare “riformette” (magari poi destinate a impantanarsi in eterne procedure attuative), un altro conto è “trasformare” il Paese (questione culturale prima che tecnica) e riagganciarlo ai mutati paradigmi della modernità, come il Piano prevede.

Il secondo interrogativo politico riguarda dunque le “condizioni” che possono favorire la continuità della “stagione Draghi”.
Siamo una democrazia e, dunque, il vaglio del voto popolare è un passaggio ineludibile e fondante. Tocca alla politica costruire le basi di consenso democratico alla piena realizzazione del Piano di Ripresa e Resilienza in questa e nella prossima Legislatura.
Stiamo andando oggi in questa virtuosa direzione? Lecito dubitarne.

Il rischio che il sistema politico si avviluppi di nuovo in una sorta di “bi-populismo” non è affatto scongiurato, come si nota anche nelle crescenti polemiche interne alla stessa anomala maggioranza che sostiene Draghi.
Dubbi e perplessità, a mio modo di vedere, sono accresciuti dalla sospensione (mi auguro che non sia una definiva archiviazione) delle ipotesi di una legge elettorale di tipo proporzionale.
Con un sistema maggioritario interpretato dalle attuali forze politiche in campo – e dalle loro vecchie e nuove incrostazioni coalizionali – sarebbe infatti piuttosto arduo immaginare nella nuova Legislatura una maggioranza politica a sostegno di Draghi e del suo progetto di trasformazione del Paese.