Pluralismo e libertà: Sturzo vs Rousseau.

 

In vista del 150° anniversario della nascita di Luigi Sturzo (26 novembre 1971-26 novembre 2021) riportiamo un ampio stralcio di questo articolo-saggio che la Fondazione PER (Progresso-Europa-Riforme) ha pubblicato nei giorni scorsi. Ringraziamo l’autore e la Fondazione per il permesso accordato alla riedizione del testo sul nostro giornale.

Luigi Giorgi

È difficile riannodare i fili di una memoria e di un percorso storico, come quella di Luigi Sturzo, che si è snodato attraverso due guerre mondiali, diversi pontificati e regimi totalitari, in una incessante lotta ed elaborazione attorno ai temi della libertà e della democrazia. Nonché intorno alla promozione di ordinamenti inclusivi in grado di coinvolgere, il più possibile, i cittadini nei processi decisionali.

La ricostruzione storica può cercare di narrarne, nel modo più preciso possibile, i passaggi e gli avvenimenti, ma forse non riuscirà mai a coglierne con precisione le tensioni e le possibilità.

Vi si può soltanto avvicinare e cercare di porre all’attenzione quanto di quella esperienza possa essere d’ispirazione ancora oggi. Per afferrare quel vivente di cui scriveva Marc Bloch, in un circolo virtuoso, dialettico, che viene ricordato da Marrou, il quale lo individuava in un movimento elicoidale: “per cui lo storico passa […] dall’oggetto della sua ricerca al documento che di essa è strumento e viceversa; la domanda che ha causato il movimento, lungi dal restare sempre identica a se stessa, si modifica continuamente in funzione dei dati documentari”.

Possiamo dire che la riflessione sturziana si connota per una estrema concretezza condotta secondo i canoni esperienzali della presenza sul territorio sia a livello amministrativo che statuale. Ragionamento che sarà debitore alla stagione siciliana, nell’impegno fra le maglie amministrative del comune. Articolare in modo diverso lo Stato liberale, vissuto come distante ed elitario, divenne uno dei suoi propositi, come quello della creazione di una presenza di cattolici italiani, nell’agone politico secondo canoni di autonomia, programma e democrazia.

 Laicità e democrazia

Sturzo ragionava attorno all’importanza della laicità e della democrazia, in ambito cattolico, quando ancora si faceva molto fatica in quel mondo, ad accettare ed interagire, senza timori politico-intellettuali, con tali idee. Disse infatti a Caltagirone già nel 1905: “La necessità della democrazia nel nostro programma? Oggi io non la saprei più dimostrare, la sento come un istinto; è la vita del pensiero nostro: i conservatori sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna responsabilità”.

E democrazia significava laicità, sia come abito mentale sia come struttura istituzionale, se così si può dire. Ha scritto Mario D’Addio: “La laicità presuppone una ragione che riconosce un fondamento che la trascende, fissando i limiti e l’ambito della sua autonomia; il laicismo, invece, si richiama all’autosufficienza della ragione”.

 Contro gli assoluti”

Sturzo non ha mai ragionato per assoluti, sia essi politici che statuali, ha ritenuto che tali riferimenti fossero afferenti ad altre esperienze più importanti e profonde. E ciò non perché ammiccasse ad una sorta di relativismo. Ma perché credeva che la democrazia per essere tale e per essere soprattutto valida dovesse essere pluralista, aprirsi alle esigenze e alle strutture che si trovavano fra il cittadino e lo Stato. Che potesse esserlo, quindi, attraverso la promozione dei cosiddetti corpi intermedi e della persona, con le sue peculiarità non disponibili per nessuno sia esso ente, che partito, che uomo politico.

A maggior ragione, in virtù di una tale visione, riteneva che non si potesse cedere troppo, in una visione totalizzante dello stesso termine, alle istanze popolari, soprattutto se poste come forza normativa e costitutiva di ordinamenti e bisogni statuali, istituzionali e territoriali, “Sturzo era (e fu sempre) – ricorda Nicola Antonetti – del tutto contrario all’uso del termine popolo quando esso è inteso come nebulosa numerica che, essendo priva di una qualsiasi identità sociale e politica autonoma e riconoscibile, è a rischio di essere eterodiretta”. Articolare le istituzioni, secondo differenti esigenze, significava disarticolare il significato, giacobino, e quindi totalizzante di popolo. Un’articolata composizione delle forme istituzionali avrebbe influito, nella sua visione, sulle forme sociali.

Resta sempre emblematica di una tale tensione la lettera scritta al fratello Mario nel novembre del 1934: “Io interpreto la teoria della sovranità popolare assoluta come una derivazione dalla teoria delle monarchie di diritto divino. Caduto, per il razionalismo del sec. XVIII, il concetto religioso su cui si basava l’assolutezza del potere, si doveva creare un altro punto di assolutezza e si riversò sul popolo come volontà generale (Rosseau). Il passaggio da questa concezione a quello dello Stato assoluto (e quindi etico) avvenne per il tramite dell’idealismo hegeliano, che fu un passo avanti sul razionalismo”.

La storia come luogo della libertà

La sua riflessione era dentro la storia ma non si adagiava in uno storicismo deterministico di matrice hegeliana, tantomeno marxista. Ma andava incontro ad una visione della storia considerata luogo della libertà e dell’affermazione della persona, intesa come protagonista produttrice, in modo organico, di cambiamento. In tale ottica, inoltre, la storia non poteva non tener conto del problema del mistero (della concezione della creazione e della caduta, scriverà lo stesso Sturzo). Perché essa, priva di un fine teleologico, doveva aiutare a comprendere la difficoltà dei tempi, ed assistere la persona nel suo mutamento.

La complessità moderna, la società delle industrie, della produzione svincolata da ogni fine sociale, la pervasività dello Stato e dei partiti nelle società del secondo dopoguerra saranno motivo di riflessione per Sturzo. E in tale ottica si muoverà anche la sua speranza che la costruzione europea fosse il più inclusiva immaginabile ed il più mediterranea possibile. “Noi vogliamo un’Europa indipendente e federata. Se l’oriente resterà totalitario, la federazione europea comincerà da occidente: Inghilterra, Francia, Italia, Olanda, Belgio, Lussemburgo”, scrisse su “Il Popolo” nel 1948.

A suo parere la costruzione europea, seppur occidentale, anche per il contesto nel quale scrisse, doveva considerare maggiormente la parte Sud del Vecchio continente.

 

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