Popolarismo ed élites, un dialogo possibile con Draghi?

I partiti rischiano di esser percepiti più come un ostacolo che una risorsa al rilancio del Paese. Bisogna sapersi misurare con le novità di questa fase politica. Un partito “di” Draghi è impossibile. E una lista “per” Draghi non la si fa solo aggiungendo un “per”, senza che si percepisca in esso lo spirito che anima l’attuale Presidente del consiglio. 

L’altroieri il presidente del Consiglio Mario Draghi, parlando agli studenti in una scuola media di Sommacampagna (Vr), ha in un certo qual modo dato una lezione di diritto costituzionale, di Costituzione materiale, ribadendo di considerarsi premier non eletto, nominato per fare. Guardando a come agisce, si direbbe “per fare” in Italia e sul piano internazionale. Già questo rende impossibile ogni paragone con altri tecnici nominati premier che abbiamo avuto. Alla luce di questo nuovo equilibrio istituzionale, l’esperienza dei partiti, che rimangono il fulcro della democrazia, così come sono attualmente configurati rischia di giungere al capolinea. O sanno adeguarsi alla mutata situazione o rischiano seriamente di esser percepiti, nel loro insieme e al di là delle loro nette diversità ideologiche, più come un ostacolo che una risorsa al rilancio del Paese. Un partito “di” Draghi è impossibile. E una lista “per” Draghi non la si fa solo aggiungendo un “per”, senza che si percepisca in esso lo spirito che anima l’attuale presidente del consiglio e si segua lo schema di governo secondo cui opera, sul quale non sembra trovare interlocutori all’altezza in nessuna delle forze politiche. Più la situazione generale si complicherà – perché siamo nel tempo tragico, spietato e cruento, della resa dei conti tra poteri globali – e più questa divaricazione tra Draghi e i partiti rischia di divenire evidente, non senza importanti conseguenze sugli orientamenti dell’elettorato.

Quali indicazioni trarre? Non avendo più partiti in grado di rappresentare al tavolo delle élites le istanze popolari, come una volta si faceva, come sapevano fare politici come Donat Cattin, Vittorino Colombo e tanti altri in partiti e correnti strutturati per tale scopo, forse non resta che cercare di interloquire con la parte “realista” di quelle élites, quella che ancora si considera parte di un comune destino col genere umano e non supremo padrone di questo. E non c’è solo Draghi, pensiamo a Carlo Debenedetti, per rimanere in Italia. Alla fine un sistema dei partiti ai cui vertici siedono solo i cooptati da ambienti come il Forum di Davos, non serve neanche alla causa di chi li ha scelti, sono deboli, privi di reale consenso, incapaci di gestire le tensioni sociali causate dalle loro stesse politiche. Hanno bisogno di emergenze continue per far passare un modello società altrimenti inaccettabile.

Mentre sulle posizioni di Draghi forse si può imbastire un nuovo compromesso fra capitalismo di nuova generazione, 4.0, e democrazia. Iniziando dal valutare ciò che dicono i fatti, e non le dichiarazioni di circostanza, della esperienza di governo di Draghi. Ricordiamone alcuni fra i più significativi. Draghi ha gestito il ritorno alla normalità, disinnescando un serpeggiante potenziale eversivo di un uso dell’emergenza sanitaria come instrumentum regni. Ha incoraggiato l’adozione in Europa di politiche neokeynesiane che alla fine, con la crisi del mercantilismo, giovano pure alla Germania più di quanto lo ammetta. Ha rispettato alla lettera le sanzioni alla Russia nonostante si siano rivelate addirittura favorevoli alla bilancia commerciale di Mosca e nel contempo stiano mettendo molto in difficoltà la classe media europea, e nel contempo ha fatto ciò che non era vietato. Sulle orme di Enrico Mattei è andato a concludere affari energetici di importanza strategica in varie parti dell’Africa, diversi dei quali in esclusiva, cioè senza francesi, inglesi e americani, al massimo con importanti partners aziendali di Paesi BRICS. Ha suggerito al presidente degli Stati Uniti Biden, come lui stesso ha rivendicato con semplicità venerdì scorso davanti agli allievi della scuola veronese, di aprire forme di colloqui diretti fra Washington e Mosca, puntualmente iniziati dopo la visita del nostro premier alla Cassa Bianca, e ha propiziato la presentazione di una proposta di pace italiana, basata sul realismo, che punta a rassicurare l’Ucraina e a porre fine alla strategia di accerchiamento della Russia in funzione di un multipolarismo dal quale tutti – noi, l’Europa, gli Stati Uniti, il Medio Oriente… – tutti, hanno da guadagnare. E l’elenco potrebbe continuare.

Ora in tutti questi ed altri ambiti strategici c’è un solo caso in cui Draghi abbia dovuto rincorrere i partiti, o anche le forze sociali; in cui qualche forza politica sia stata in grado di tracciare un percorso utile al Paese per proporlo al governo, anziché ripetere, senza forse neanche capirli, messaggi confezionati altrove atti più a creare difficoltà alla ripresa economica e alla pace che a sostenerle? Dunque, ridefinire il senso dell’azione politica, le priorità in relazione alle sfide poste da Draghi può forse anche essere un modo utile ad attualizzare e rendere fecondo il patrimonio politico, ideale, culturale, storico del popolarismo. Il dibattito è aperto, non si risolve certo solo in sede politica senza un colossale lavoro culturale, educativo e formativo al quale, credo, non solo i partiti ma anche le forze sociali e le realtà associative, non si devono sottrarre.