Presepe: la frattura tra “cattolici del sociale” e “cattolici della morale”

Come superare il “presepismo”?

Evitando di prendere le mosse da S. Francesco d’Assisi e da S. Gaetano da Thiene relativamente al presepe, alla rappresentazione vivente o a quella popolare tipicamente napoletano che influenza ancora oggi i nostri presepi e non volendo concentrarsi sulle prime rappresentazioni della Natività come quella del II secolo d.C. dipinta sulla parete delle Catacombe di S. Priscilla a Roma o quella del IV secolo su un sarcofago in Sant’Ambrogio a Milano oppure quella formata dalle statue realizzare da Arnolfo di Cambio verso la fine del XIII secolo intorno alla reliquia della sacra culla in Santa Maria Maggiore a Roma, non si può, però non ragionare oggi di esso. Perchè? Per il fatto che il presepe è entrato prepotentemente nella diatriba politica italiana e viene usato, o meglio scagliato, contro l’avversario da ciascuna parte contrapposta. Ma quali sono le parti in campo?

Da un lato ci sono i “cattolici della morale” che, riducendo il presepe a mero simbolo culturale accettano l’uso della fede come religione civile ad uso e consumo da parte di quelli che il filosofo Remy Brague ha definito “cristianisti”, in altri casi individuabili come atei devoti, interessati non all’incontro con Gesù Cristo bensì all’uso dei simboli religiosi come strumenti da permeare di valenze nazionalistiche capaci di sobillare gli umori di un popolo in un’epoca dove serpeggiano le paure e fa gioco un uso distorto di sane e belle tradizioni popolari che non vanno confuse con la propria “chiesetta piccoletta”: “Noi dobbiamo aprirci alle periferie, riconoscendo che anche chi sta ai margini, addirittura colui che è rigettato e disprezzato dalla società, è oggetto della generosità di Dio. Tutti siamo chiamati a non ridurre il Regno di Dio nei confini della “chiesetta” – la nostra “chiesetta piccoletta” – ma a dilatare la Chiesa alle dimensioni del regno di Dio” (Papa Francesco, Angelus, 12 ottobre 2014). Cosa ci fanno questi cattolici in simile compagnia? Forse stanno ribaltando, giocando in mera difesa, di fatto sfuduciati del mondo, l’indicazione di Papa Benedetto XVI secondo cui la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione, pensando ad una opportunità, legata a visioni nostalgiche.

Dall’altro lato troviamo i “cattolici del sociale” che traducono il dialogo in campo aperto nel mondo in un irenismo capace di evitare ogni inquietudine legata alla proclamazione della Buona Novella e delle indicazioni del Magistero cercando di portare la Chiesa lontana da quella strada indicata da San Paolo VI per cui essa deve dialogare col mondo in cui si trova a vivere facendosi parola, messaggio, colloquio (Ecclesiam Suam, n. 67). In tal senso la tendenza è quella di fare sparire simboli e tradizioni col rischio di annullare la Chiesa, addirittura Cristo stesso, dentro uno spiritualismo del tutto intimo (una sorta di provatizzazione della fede) incapace di cogliere la superiorità della realtà, rispetto all’idea, che è fatta anche di capacità di cogliere e curare le paure che nascono tra il popolo senza denigrarle con atteggiamento di superiorità ed elitario. Dove rimane, in questa metà campo, quel dovere all’identità di cui ha parlato Papa Francesco durante il suo viaggio in Egitto del 2017 inserendolo tra i tre orientamenti fondamentali per aiutare il dialogo proficuo insieme al coraggio dell’alterità e alla sincerità delle intenzioni?

Questi due fronti sono esattamente quelli che sono formati da chi ha prosperato sulla frattura che, venuta meno una presenza significativa in politica, quasi una prima linea di difesa, si è insinuata velenosamente nella nostre comunità portando tanti cattolici ad uno schierarsi da una parte o dall’altra smontando la visione sociale cristiana e riducendola in due parti egualmente ideologiche. Il “presepismo”, cioè, con un brutto neologismo, l’uso ideologico e politico del presepe, è un esempio di tale nefasta frattura per l’uso contrapposto che se ne fa tradendone in entrambi i casi la sua originale valenza.

Quanto ha ragione il Cardinal Bassetti quando pone come premessa di un nuovo protagonismo dei cattolici il superamento della frattura tra “cattolici del sociale” e “cattolici della morale” anche sacrificando un po’ di aspirazioni personali nascoste dentro la schizofrenia di troppe iniziative.

Come superare il “presepismo”? Lo ha ben detto in un suo mirabile articolo, apparso su Avvenire del 17 dicembre 2017, Davide Rondoni e tale strada può rivelarsi utile anche per comprendere come tornare protagonisti nella società che sta prima, è premessa, ad un ritorno nelle istituzioni altrimenti mendicato, che si impegna a costruire la domanda prima dell’offerta altrimenti autoreferenziale e vecchia, che fa la fatica di ritrovare la virtù dell’ “Amicizia Cristiana” che si fa così innesco di un processo politico che evita la mera e illusoria occupazione di spazio : “Raccontare un fatto è diverso dal difendere un simbolo. I simboli procedono spesso verso l’astrazione, sono simboli per quanto importanti di concetti: identità, civiltà, cultura… Tutte cose sacrosante, specie in momenti di confusione, ma guai a ridurre il presepe, questo mite e misterioso racconto, a un simbolo scontato, utile a propugnare idee invece che a sgranare gli occhi di fronte al fatto che narra. I simboli possono essere anche impugnati e difesi, e certo va fatto quando sono in gioco questioni serie. Ma il presepe non va brandito, va guardato. Va ascoltato. Con il cuore commosso di chi – come l’innamorato di fronte al sì, all’eccomi della donna amata – si trova dinanzi a un dono immenso, sproporzionato ai suoi meriti e alle sue capacità. È bello, è giusto che uomini e donne, famiglie, persone da sole, o rappresentanti delle istituzioni sentano il bisogno di raccontarsi e raccontare ancora questo grande fatto…

È una notizia che continua a correre, a raccontarsi. Il più misterioso e affascinante dei racconti. Un fatto vero che, come accade per tutti i fatti importanti, viene raccontato in molte lingue, secondo tante sensibilità e culture diverse. Ma un racconto, non un simbolo ideologico. Infatti mentre i simboli possono scaldare soprattutto le discussioni, i racconti scaldano i cuori e la conoscenza. Ogni discussione, se ben argomentata può essere utile, specie se non nega la storia e la libertà. Ma credo che nel nostro tempo, e nel tempo di questa nostra Italia sempre ferita e sempre benedetta, sia più importante oggi la silenziosa commozione che la vivace discussione. Alzare i toni davanti al Presepe può essere giusto, se le parole sono attraversate anche dallo stupore, dalla preghiera e dal silenzio del cuore. Perciò viva ogni piccolo o grande presepe, ogni piccola o grande versione d’un racconto del Fatto che ci dà speranza”.