Protagonisti e comparse nella guerra russo-ucraina che rischia di trasformarsi in scontro fra civiltà.

I protagonisti principali della guerra sono Vladimir Putin e Joe Biden. L’autocrate di Mosca sembra aver puntato su una lenta graduale escalation militare in grado di fargli guadagnare tempo e terreno. Biden, all’interno, subisce invece un progressivo logoramento. Tutto questo non rilancia il ruolo dei leder europei. In questo quadro la guerra non si arresta. 

La guerra russo-ucraina continua a ruotare sempre più attorno alla lenta ma inesorabile offensiva russa nel Donbas ed alla continua fornitura all’esercito ucraino di armamenti da parte dell’Occidente, Stati Uniti in testa, per contrastarla. È ormai un braccio di ferro Est-Ovest, che sembra escludere per il momento la tregua negoziale che da varie parti, soprattutto occidentali, non si cessa di invocare e per la quale la diplomazia turca continua a spendersi (anche… pro domo sua). Gli analisti prevedono il protrarsi del conflitto ancora a lungo e osservano che, in casi del genere, la storia insegna che esso potrà terminare soltanto con la vittoria di una delle due parti.

Nel frattempo, si ha la percezione che il fossato apertosi con l’invasione del 24 febbraio scorso tra Mosca, da un lato, e Washington e le principali capitali europee, dall’altro, tenda inesorabilmente ad allargarsi anche sull’onda di esternazioni caratterizzate da una forte (a tratti, perfino feroce) carica di radicalismo, che non si manifestava più dai tempi della “cortina di ferro”. 

Infatti, non passa giorno che una delle due parti non lasci di esprimere il proprio disprezzo per l’avversario e la volontà di annientarlo. Vengono denunciati e perfino irrisi quegli stessi organismi ed istituzioni internazionali, che la comunità internazionale aveva creato per assicurare il mantenimento dell’ordine e della giustizia a livello regionale o planetario. Si arriva a parlare di uno scontro fra civiltà anche religiose, se si valutano i sermoni del patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill, nei quali egli condanna senza riserve alcuni fondamentali principi etici sui quali poggia la società occidentale (edonismo, parità di genere, aborto, libertà sessuale ecc.). Si arriva a minacciare lo spettro di una guerra nucleare, pur di non cedere il passo all’avversario.  

In definitiva, è proprio questa nefasta atmosfera a preoccupare maggiormente, al di là dello scontro militare, seppur furioso, che si continua a registrare sul campo,  poiché, con uno sguardo verso il futuro, ci si interroga se sarà possibile, una volta superata l’attuale tragica crisi (perché, prima o poi, essa dovrà essere superata),  ricucire i numerosi strappi che la tela geo-politica presenta e, in caso affermativo, quanto tempo sarà necessario e dinnanzi a quali nuovi equilibri ci troveremo a convivere.

Resta il fatto che I protagonisti principali della guerra sono Vladimir Putin e Joe Biden, più il primo del secondo trattandosi di colui che l’ha prima programmata e poi cinicamente realizzata e che ora sta tentando, per interessi personali e nazionali e tra molte difficoltà, di portarla a termine nel migliore dei modi.  Sappiamo ormai che varie circostanze lo hanno obbligato a rivedere i suoi disegni iniziali. Innanzitutto, la strenua resistenza dell’esercito ucraino e, subito dopo, la pronta reazione anglo-americana sulla scia di una NATO all’interno della quale si sono incolonnati, seppur in ordine sparso, gli altri paesi membri, una Alleanza atlantica dispostasi come baluardo di un’Europa consapevole dei rischi (presenti, ma soprattutto futuri) che l’offensiva russa potrebbe rappresentare per i destini del continente. 

Putin sta però dimostrando che non intende mollare, avendo investito in questa “avventura militare”, non soltanto il proprio potere, ma probabilmente la stessa sopravvivenza politica (e non solo). A questo stadio, un negoziato non gli serve, dovendo ottenere con la forza, e non con la dialettica diplomatica, un risultato che riaffermi la potenza russa per poi sbandierarlo sulla Piazza Rossa e solleticare il mai sopito noto nazionalismo del suo popolo, che – a quanto pare – l’Occidente appare avere sottovalutato e che le sanzioni economiche hanno già in parte fatto risorgere. Putin sembra, inoltre, ritenere che l’intensificazione del conflitto (contrariamente a quanto sta avvenendo in patria) finirà per indebolire la (tentennante) unità dell’Occidente, logorata dall’effetto boomerang delle sanzioni stesse e minata al suo interno dalla crescente ondata filo russa (?) di opinionisti in libera uscita e pseudo intellettuali di estrazione comunista. Ecco perchè egli sembra aver puntato su una lenta graduale escalation militare in grado di fargli guadagnare tempo e terreno, in attesa che il variegato fronte avversario si sfaldi, consentendogli di incassare l’intera posta. 

Il Presidente Biden è l’altro protagonista. Unico valido antagonista di Putin, egli è sceso in campo dapprima con atteggiamento amletico, ma poi, nella misura in cui l’esercito russo mostrava scarsa efficacia sul terreno, si è impegnato con sempre maggiore determinazione per trasformarsi in acceso e irriducibile oppositore di Mosca anche di fronte alle minacce russe di ricorrere ad armi nucleari tattiche ovvero all’utilizzo di armi chimiche. Egli ha allora dislocato ai confini con l’Ucraina vari contingenti militari, potenziato la forza aerea, progettato l’installazione di una base militare (presumibilmente in Polonia) e continuato ad inviare armi sempre più sofisticate all’esercito ucraino. 

La sua progressiva fuga in avanti solleva però qualche interrogativo. Infatti, Biden vede progressivamente diminuire la percentuale interna di consensi, giunta ora a livelli inferiori al 40%, mentre le elezioni di metà termine incalzano. Del resto, il suo sforzo di assumere la leadership in difesa delle democrazie europee si è indebolito anche a causa della dicotomia esistente tra la volontà di Polonia e paesi baltici di intensificare gli sforzi a favore del pieno sostegno all’Ucraina e di quelli non del tutto convinti di seguire la strada del confronto piuttosto che privilegiare quella dei negoziati. Tale dissidio ha ramificazioni in seno allo stesso Congresso americano all’interno del quale i falchi (per lo più repubblicani) spingono per armare l’Ucraina il meglio possibile fino a consentirle di attaccare la Russia sul proprio territorio, mentre i democratici frenano non poco, temendo una escalation del conflitto che potrebbe portare ad uno scontro diretto con Mosca. 

I fautori della prima impostazione affermano che soltanto una vittoria ucraina potrà consentire all’Occidente di disinnescare la carica dirompente dell’espansionismo russo, temendo che una strategia di semplice contenimento possa creare uno stallo prolungato in grado di indebolire l’unità europea con conseguente allentamento del sostegno all’Ucraina sia in termini di forniture di armi che di sanzioni economiche. Ciò detto, i repubblicani approfittano della scomoda situazione di Biden, preso tra incudine e martello, per indebolire la sua posizione in vista delle elezioni congressuali di novembre, importante prologo alle presidenziali del 2024.

Il tempo non gioca dunque a suo favore, tenuto anche conto che la dipendenza europea dalle fonti di energia russa non cesserà a breve. 

Zelensky è ormai a tutti gli effetti il terzo protagonista della crisi in corso, essendosi guadagnato i galloni sul campo. Nel corso degli oltre tre mesi di conflitto, il leader ucraino si è trasformato da oscuro ed insignificante politico, giunto casualmente al vertice delle istituzioni nazionali, ridicolizzato verbalmente da Putin subito dopo l’invasione e braccato dai suoi sicari per essere eliminato fisicamente e costretto ad auto confinarsi in un bunker sotto terra per sfuggire ai bombardamenti, in stimato, ammirato e autorevole capo di stato capace di rivolgersi pubblicamente ad omologhi di prima grandezza, parlamentari stranieri e alla stampa internazionale, inoltrare richieste e dettare condizioni a nemici ed alleati, ricevere il plauso di gran parte della comunità internazionale e diventare il simbolo della strenua difesa dei valori democratici dell’Occidente. In sintesi, egli è riuscito a chiamare a raccolta gran parte del mondo occidentale intorno a se, riuscendo a convincere i suoi autorevoli interlocutori ad inviare subito aiuti umanitari ed armamenti, in quantità senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale.

Alle offerte di abbandonare in sicurezza il paese presentate dai governi americano ed inglese subito dopo l’invasione russa, egli ha coraggiosamente espresso un netto rifiuto, manifestando il desiderio di combattere alla guida del suo popolo sul territorio nazionale. In altri termini, egli ha respinto l’idea di costituire un governo in esilio per dirigere da oltre confine le operazioni di guerra, preferendo diventare un simbolo di resistenza in patria, piuttosto che un fuggiasco oltre confine.

È tuttavia auspicabile che il potere di cui dispone possa non illuderlo di perseguire obiettivi oggi praticamente impossibili da ottenere come la richiesta di ritiro dell’esercito russo dai territori occupati. In tal senso, dovrà essere cura dell’Occidente riuscire a convincerlo.

Anche Erdogan e Orban, anche se con motivazioni e finalità differenti, possono aspirare al ruolo di protagonisti.

Il primo, proponendosi come mediatore, è sembrato voler assumere le vesti di nuovo sultano (contrapposto a Putin, nuovo zar), richiamando alla memoria un antico quadro geopolitico regionale caratterizzato da equilibri (ovviamente limitati ad un quadro militare convenzionale) fondati sull’importanza strategica dello Stretto dei Dardanelli quale porta del Mediterraneo. Con questa iniziativa, Erdogan rivendica la presenza turca nel Mar Nero, sottolinea il peso specifico di Ankara all’interno della NATO e l’importanza del suo ruolo nel fianco sud dell’Alleanza, ottiene surrettiziamente una licenza di colpire la resistenza clandestina in patria ed oltre confine (anche con il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO) e, “ last but not least”, distrae l’attenzione dell’Occidente dalle misure chiaramente dispotiche che caratterizzano la sua azione di governo. Non è poco!

Oltremodo stimolato dalla quinta rielezione, quarta consecutiva, alla massima carica dello stato, anche Orban aspira a giusto titolo al rango di protagonista, avendo ostacolato – praticamente unico tra i 27 membri dell’Unione Europea –  l’attività sanzionatoria nei confronti della Russia, ottenuto eccezionali deroghe nell’importazione di petrolio russo e vietato la presenza del patriarca Kirill nella lista di proscrizione redatta da Bruxelles e Washington (pur rappresentando in Ungheria la chiesa russo-ortodossa appena l’1% della popolazione). Tutto questo dopo aver l’Ungheria ricevuto per anni notevoli sostegni economici dall’Europa, malgrado Orban abbia, in quello stesso periodo, condizionato il sistema giudiziario nazionale, soppresso la libertà di stampa, nominato uomini di propria fiducia in tutti i principali gangli della pubblica amministrazione e della società civile nonché favorito in vari modi l’attività del proprio partito politico! Purtroppo, la sua vecchia amicizia con Putin potrebbe continuare a condizionare non poco la politica europea nei confronti di Mosca.

Stoltemberg, Boris Johnson, Macron, Draghi e Scholz, tra gli altri, tentano, a corrente alternata, di guadagnare e ritagliarsi una marcata “leadership”, ma sempre con scarso impatto per la luce riflessa da cui sono illuminati. Del resto, gli sporadici tentativi di alcuni di loro di avviare un dialogo diretto con Putin sono stati puntualmente respinti. In sostanza, essi risultano essere in balia di eventi che li sopravanzano, indeboliti per giunta da ricadute politiche interne o da problematiche contingenti troppo difficili da risolvere autonomamente (crisi alimentare e negoziati di pace). La loro attività risente troppo da quanto viene deciso altrove e appare, di conseguenza, alquanto velleitaria, quando non proprio del tutto sterile. In tal senso, il ruolo di (seppur illustri) comparse sembra fino ad oggi pienamente attagliarsi a loro.       

 

Giorgio Radicati – Ambasciatore