Articolo pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Simon Levis Sullam

È difficile riflettere a mente e cuore sgombri sulla situazione in Israele e Palestina, mentre in queste ore risuona il fragore dei missili dai due lati, si contano centinaia di morti e forse non si sono ancora del tutto placati gli episodi di violenza tra ebrei e arabi israeliani in alcune città dello Stato ebraico. La spirale di una guerra sproporzionata e asimmetrica ha ripiombato le diverse parti in causa del conflitto mediorientale in una situazione apparentemente senza via di uscita e di tragico, ripetitivo stallo che risale in questi schemi e forma almeno ai tempi del precedente conflitto tra Israele e Gaza del 2014. E che nuovamente radicalizza, per motivi e con finalità diverse, i due principali contendenti in primo piano: l’Israele di Netanyahu (capo del governo de facto da quasi un decennio) e la Gaza di Hamas, ma anche la West Bank di Mahmud Habbas, con sullo sfondo gli altri decisivi giocatori: dagli Stati Uniti, all’Iran e alla Turchia, ma anche la Russia, la Cina, l’Egitto e i firmatari degli accordi di Abramo, Emirati Arabi e Bahrein, non esclusa l’Arabia Saudita che formalmente non ne fa parte.

Nonostante tutto, vale la pena provare a fermarsi e riflettere – anche in questi giorni drammatici e senza che ciò costituisca una via di fuga dalla realtà o una mancata ferma critica della violenza da entrambi i lati ‑ su quello che i principali contendenti, israeliani e palestinesi, hanno in comune – che è anche ciò che profondamente li divide. E allo stesso tempo riflettere sulle possibili vie di uscita, almeno teoriche e affidate dall’immaginazione politica, a proposte alternative allo scontro frontale, tra quelle che sono state formulate nell’ultimo secolo a proposito di quella regione e dei suoi storici, viscerali conflitti. Non solo per ricordarsi, nel momento in cui ogni possibilità di dialogo e convivenza pare nuovamente impossibile, che queste idee sono state formulate. Ma anche per coltivare la speranza che – quando le armi finalmente taceranno di nuovo – si possa cominciare a ricostruire relazioni e nuove forme di convivenza senza partire solo dalla tragica conta dei morti e senza ricostruire cominciando esclusivamente dalle macerie: sia degli edifici distrutti, sia dei tessuti politici e sociali lacerati tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e arabi cittadini israeliani.

Un tema concreto e simbolico drammaticamente condiviso da palestinesi e israeliani, e prima da arabi ed ebrei, è quello della terra: della terra di origine, promessa, contesa e condivisa. Come condivisa – o, almeno, idealmente ed emotivamente condivisibile – è stata ed è l’esperienza che ha preceduto la conquista della, o ha seguito l’espropriazione e il possibile ritorno alla madrepatria: cioè l’esilio. Ma è sulla terra che particolarmente vorrei fermarmi, proprio per rilevare il problema dell’attaccamento simbiotico alla madrepatria, come è stato coltivato ed espresso ad esempio sul piano letterario da palestinesi e israeliani. Penso alle dense pagine del racconto del noto scrittore palestinese Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole(1962, trad. it. Sellerio, 1991) e a quelle oggi non tra le più note dell’israeliano David Grossman, nel suo reportage nei Territori occupati, uscito alla viglia della prima Intifada (Il vento giallo, trad. it. Mondadori, 1988).

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