Quando De Gasperì rifiutò la candidatura al Quirinale

Lo statista trentino non esitò a legare le sorti della sua battaglia politica al ruolo di capo del governo.

Il testo è preso dal nuovo numero 0 del periodico “Democraticicristiani – Per l’Azione” dell’Associazione Nazionale dei Democratici Cristiani (ANDC). In fondo all’articolo si può digitare il link per accedere alla pubblicazione in pdf.

I successi eclatanti nascondono spesso, come si sa, zone oscure di non chiarezza, non sincerità. E così fu anche in quella famigerata tornata elettorale del ’48. Tanti e tante testimoni dell’epoca  maturarono già allora questa considerazione: quei molti voti ottenuti dalla Democrazia cristiana, che avrebbero fatto sentire il loro peso nelle sedi decisionali, erano stati il frutto della paura, «nel senso più letterale di emozione e di reazione irriflessa a una minaccia di conquista da parte del Partito comunista», così scriveva Giuseppe Dossetti su «Cronache sociali» del 15 maggio del ’48. Aveva influito, infine, proseguiva lo stesso Dossetti, «una mobilitazione degli ideali cristiani e delle organizzazioni cattoliche, talvolta spinta fino ad essere in qualche modo deviata dal genuino e fraterno senso cristiano della vita e dei rapporti umani o dal doveroso rispetto della distribuzione di competenza tra religione e politica». Sono gli anni drammatici del dopoguerra, in cui l’Italia si trova ad affrontare i gravi problemi della ricostruzione e delicate questioni interne e internazionali: l’approvazione del Trattato di pace, con l’angosciante nodo delle rivendicazioni jugoslave sull’Istria e su Trieste e con la difficile trattativa sull’Alto Adige; la scelta fra monarchia e repubblica; l’approvazione della Costituzione; la nascita dell’Alleanza atlantica e i primi passi dell’unità europea e infine, nel ’53, la tormentata questione della riforma elettorale voluta da De Gasperi per garantire una maggiore stabilità al governo e duramente contrasta dall’opposizione che quella riforma definì “legge truffa”. Sono gli anni, soprattutto, della divisione internazionale fra Occidente e blocco comunista col conseguente, radicale contrasto fra Democrazia cristiana e Partito comunista, come dimostrato anche dalle accennate elezioni.

A poco tempo di distanza da quella consultazione elettorale, il paese affrontava un’altra delicata elezione: quella del presidente della Repubblica. Alcide De Gasperi puntava a far coincidere la maggioranza presidenziale con la maggioranza di governo. Suo candidato era il repubblicano Carlo Sforza, già ministro degli Esteri, convinto filoccidentale sostenuto dagli USA. Candidatura a cui si opponevano le sinistre socialcomuniste e la sinistra democristiana facente capo a Dossetti e Giorgio La Pira. Sin dal primo scrutinio apparve chiaro il dissenso all’interno del partito di maggioranza: Sforza otteneva 100 voti in meno della maggioranza dei gruppi democristiani. Dopo l’esito negativo del secondo scrutinio, Giuseppe Saragat contropropose Ivanoe Bonomi, candidatura che avrebbe potuto essere votata dalla sinistra. La Dc, contraria a questa possibilità, si orientava sul liberale Luigi Einaudi. Respinta la proposta di Palmiro Togliatti di una sospensione delle votazioni per discutere nei rispettivi gruppi la nuova candidatura, al terzo scrutinio comunisti, socialisti, monarchici e missini votarono scheda bianca. Al quarto scrutinio, Einaudi era eletto con 518 voti. Le sinistre e il Movimento Sociale Italiano votavano, invece, Vittorio Emanuele Orlando, il quale otteneva 320 voti. 

C’è un fatto generalmente poco ricordato dalla pubblicistica corrente: due anni prima De Gasperi aveva assunto le funzioni di capo provvisorio dello Stato dal 13 alla fine di giugno del 1946; una presidenza breve, ma tutt’altro che semplice. Non così accadde nel ’48, quando rifiutò di candidarsi nel ruolo poi ricoperto, appunto, da Einaudi. Ma, come si scriveva all’inizio, preferì rimanere al governo per poter meglio gestire la difficilissima situazione postbellica, di cui, sinteticamente, si è parlato. E avrebbe potuto, a buon diritto, accettare di candidarsi, ma non lo fece nonostante o, forse, proprio a causa di quell’eclatante successo elettorale. 

 

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