Nel 1951 si votò nei Comuni in due turni (27 maggio – 10 giugno) con una legge elettorale che premiava i partiti uniti in coalizione. Anche La Pira, a Firenze, vinse grazie al premio di maggioranza riscosso dalle forze democratiche di centro. 

A ridosso delle elezioni, Dossetti pubblica sul fascicolo di “Cronache Sociali” del 15 maggio un lungo articolo (Tattica elettorale): manca la firma ma viene attribuito a lui, ancora in quel momento vice segretario del partito (dopo qualche mese annuncerà il ritiro dalla politica). Dossetti, appoggiandosi a Sturzo e a Piccioni, contesta il ricorso alla logica di apparentamenti generici, a seconda delle condizioni locali, con la conseguenza di vedere sminuita l’identità e l’immagine della Dc. 

In sostanza si scaglia contro quello che veniva definito il “polipartito”, un aggregato di più partiti raccolti sotto le insegne di una Dc ormai devitalizzata. È una critica che oggi potrebbe ancora valere mutatis mutandis come un monito verso la prassi usuale di aggregare consenso attraverso lo strumento di liste cosiddette civiche, perlopiù emanazione di accordi dietro le quinte tra candidati Sindaci e gruppi di interessi locali.

Se la critica di Dossetti non “regge” al confronto con il realismo di De Gasperi, resiste tuttavia nel profilarsi come richiamo alla necessità di una politica dotata di valori, forte di una sua idea direttiva, capace di oltrepassare le consegne del piccolo cabotaggio. Una politica riformatrice vive anche di alleanze, ma non solo di esse.

Di seguito riportiamo le conclusione dell’articolo, per altro molto denso e articolato.     

Tattica elettorale

La ricostruzione fatta della vicenda della legge elettorale e i dati particolari sin qui rilevati confluiscono tutti in una con-statazione riassuntiva: lo spirito bloccardo, che sembrava definitivamente estromesso dalla tradizione popolare e ancor più dalla concezione personalistica ed organica della nuova generazione democratica cristiana (così Piccioni, Discorso sulla legge elettorale per la Costituente in Atti della Consulta Nazionale, pag. 680 e 682) è invece risorto nel Partito di maggioranza dopo il 18 Aprile. La legge elettorale del 1951 non ha spalancato le porte, ma piuttosto ha tentato di esorcizzare quello spirito e per sé vi è riuscita, almeno nella misura massima possibile, date le circostanze e gli orientamenti ormai dominanti. Ma esso, nella fase terminale dell’applicazione ha ripreso il campo più potente di prima e forse accompagnato da altri spiriti peggiori di lui

Con quali conseguenze?

È troppo presto per potere fare previsioni concrete e pronunciare giudizi definitivi. Ma sembra di potere almeno affermare: come l’intransigenza dei popolari fu nel 1920 un mezzo vivace ed arduo per costruire e imporre la personalità del Partito (Sturzo, Relazione al IV Congresso a Torino, n. 15), cosi oggi una anche limitata transigenza democristiana rischia con forte probalilità di condurre ad una certa devitalizzazione del Partito di maggioranza.

Forse qualcuno chiederà: ma questo alla fine è proprio un grande male e un danno irreparabile? O non è forse il Partito semplice mezzo rispetto allo Stato? Se lo Stato, per ipotesi, nella transigenza democristiana trovasse un vantaggio o per lo meno evitasse danni maggiori, non sarebbe forse una ostinazione partitocratica il sollevare riserve a qualche sacrificio di parte, al servizio del bene generale del Paese?

Ci proponiamo di ritornare su questo problema, sia nei suoi aspetti generali sia in quelli specifici alla presente situazione concreta: soprattutto per segnare il netto distacco della nostra visione da qualsiasi insano patrottismo di partito. 

Però, sin da ora, non possiamo non osservare che la Democrazia Cristiana dopo il 18 aprile si è trovata in una situazione di eccezionale favore e insieme si è trovata a dovere adempiere a un compito di eccezionale impegnatività. 

Si è trovata cioè nella condizione diversa rispetto a quella, quasi senza alternative, che si offriva al partito popolare nel primo dopoguerra: poteva invece essere anche una maggioranza omogenea. La Repubblica Italiana, dopo il 18 Aprile – a differenza della III e della IV Repubblica francese e della Repubblica di Weimar – poteva essere una democrazia semplificata e attivata da un mandato popolare unitario. 

D’altro canto, alla Democrazia Cristiana si poneva un compito pure fuori del comune, compito risultante da quell’insieme di problemi che il 18 Aprile non aveva risolto, pur offrendo la chiave della loro soluzione, cioè i problemi del risanamento e della stabilità reale della società e dello Stato italiano. Ossia c’era da arrestare e da ripercorrere il cammino della disgregazione sociale, del deperimento economico, della decomposizione amministrativa, ormai spinta – dopo il fascismo – a un limite di decadenza nazionale, da cui certo nel 1920 si era rimasti, nonostante tutto, ancora ben lontani. Per tutto questo non poteva prov-vedere una pluralità qualsiasi di forze eterogenee, ma occorreva una forza: una forza omogenea, dotata di un suo nerbo spirituale, di un suo programma definito, di una salda ossatura organizzativa, di una sua imponenza quantitativa. 

Solo la Democrazia Cristiana si è trovata nella possibilità e nella responsabilità di riunire tutti questi elementi e pertanto di essere non semplicemente – come era il Partito Popolare – un partito in uno Stato già dato, ma ben più, cioè l’unico strumento per la costruzione di un nuovo Stato – non più semidemocratico e semioligarchiro, ma schiettamente democratico – da dare agli Italiani. 

Cosi aveva voluto la volontà popolare che per questo aveva concentrato sulla Democrazia Cristiana, come sull’unica capace, un tanto numero di suffragi. E per quale via? Appunto per la via del sistema proporzionale. 

Al qual propostto ci si consenta di richiamare, a mo’ di conclusione, quanto diceva l’on. Piccioni alla Consulta Nazionale il 14 Febbraio 1946, con una ispirazione oramai remota, ma pure quanto attuale: «Non si può rimanere proporzionalisti a metà e da questa posizione erigersi a giudicare delle più disparate conseguenze, attribuite senza discriminazione alla proporzionale. Ora, i presupposti di questa sono i partiti, piaccia o non piaccia a quelli che sono vissuti in climi politici diversi … piaccia o non piaccia, siamo in regime di democrazia, secondo noi democratici cristiani, personalistica ed organica. I partiti sono, devono essere e devono rimanere, i protagonisti veri ed unici della lotta politica» (Atti della Consulta Nazionale, pag. 682). 

In questi protagonisti, l’on. Piccioni indicava addirittura il tramite insostituibile della volontà popolare di rinnovamento e di costruzione democratica contro l’oligarchia degli anziani, almeno, in una fase storirica come la nostra, da lui qualificata di dissolvenza dello Stato

Con il che si ritorna in definitiva all’affermazione sturziana: «Il primo partito organizzato è oggi il Governo» (Popola-rismo e Fascismo, pag. 216). 

Di qui e solo di qui muove il nostro convincimento che ogni eventuale devitalizzazione di quel protagonista dell’azione politica e dell’azione statale, che è oggi in concreto per la Repubblica Italiana il partito della Democrazia Cristiana, non sia soltanto l’indebolimento di una parte, ma si traduca in una devitalizzazione del tutto, cioè dello Stato. Ogni passo nel cammino della spersonalizzazione del Partito, verso un generico e indifferenzialo trascendimento di esso in quello che recentemente è stato chiamato il polipartito, non è un passo avanti nel servizio del Paese, ma è un passo indietro, che promulga e aggrava la permanente crisi della società e dello Stato Italiano.