All’appello del Papa per un percorso sinodale della Chiesa in Italia, la Civiltà Cattolica risponde con un riepilogo di vari contributi offerti, a tal proposito, attraverso i suoi contributi più recenti. In particolare l’intervista di Giuseppe De Rita, pubblicata qualche mese fa,  conserva grande freschezza di argomentazione. Anche noi, avvalendoci della pubblica disponibilità dell’autorevole rivista dei gesuiti, ne riproduciamo una parte.

Professore, cominciamo a ricostruire gli elementi di fondo: come è nato quel Convegno?

Ecco, qui ci sono almeno due strade da percorrere a ritroso per comprendere bene: il contesto degli anni Settanta, per la società e per la Chiesa; e il percorso interno alla Chiesa italiana immediatamente precedente a quello specifico evento.

Andiamo per ordine: gli anni Settanta…

A distanza di tempo, e pensando al rinserramento degli anni Ottanta e Novanta, quella spinta alla mobilitazione collettiva appare un’eccezione «epocale», qualcosa di anomalo rispetto al tran tran quotidiano della vita ecclesiale, e anche rispetto all’appariscente politica ecclesiastica sui cosiddetti «valori non negoziabili». Eppure non era un’eccezione, anzi quella mobilitazione collettiva era coe­rente con una società italiana, quella degli anni Settanta, che era piena di tensioni, contraddizioni, conflitti sociali e dialettiche culturali. In un clima che imponeva ai vari soggetti – individuali e collettivi – l’imperativo di osare, pur di non restare nell’irrilevanza della mediocrità. Sono gli anni dell’esplosione della piccola impresa, dei distretti industriali, dei consumi di qualità, dell’avvio della stagione del made in Italy. E anche – è bene ricordarlo – gli anni di una conflittualità diffusa, sia sindacale – ricordiamo gli autunni caldi – sia di piazza.

In questa società che cambiava, come si poneva la Chiesa di quel tempo?

Quando mi misi al lavoro per la preparazione del Convegno, dentro l’ambiguità difficile di quella società, vedevo serpeggiare nella Chiesa italiana un’inarrestabile tendenza al masochismo, che assumeva prevalentemente due connotazioni: la prima, quella di una Chiesa che andava al macello, sbagliando più o meno coscientemente tutte le sortite pubbliche con una baldanza di atteggiamento che definivo «fanfaniana» e che contrastava con la problematicità un po’ angosciata che filtrava dalla Santa Sede. La seconda forma di masochismo erano le catacombe minoritarie delle riaffermazioni di principio, delle testimonianze, dei richiami teologici, delle obbedienze, delle comunioni ecclesiali con i superiori, con atteggiamenti di fanatismo di difesa, di quadrato, senza grinta di conquista e di futuro, senza speranza, potrei dire.

Ecco, questo mi sembra fosse il punto emotivamente più evidente: la mancanza quasi assoluta del senso del futuro e della speranza: mancanza stravolgente per la Chiesa che, se vive di storia e tradizione, ancor più vive, o dovrebbe vivere, di futuro e di speranza.

Eppure si era ancora nella coda del Concilio Vaticano II…

Sì, ma era da tempo in corso un dibattito, diciamo, tra gli ottimisti e i pessimisti post-conciliari. E in quel preciso momento dominava un pessimismo, con venature di non speranza, che mi sapeva proprio di pessimismo borghese; di declino della borghesia come gruppo di spinta, mentre cresceva l’imborghesimento di massa; di illusione borghese di poter e dover dare testimonianza con le parole, mai con l’impegno e le opere.

In questo contesto – all’interno di quel clima post-conciliare cui ha fatto cenno – il Convegno ecclesiale nazionale arrivava di fatto già come una tappa di un percorso. È così?

Esatto. Tra il 13 e il 15 febbraio del 1974 si era tenuto nella Capitale il Convegno su «I mali di Roma».

Del quale Lei fu uno degli ideatori e animatori, convocato dal cardinale vicario di allora, Ugo Poletti…

Un giorno, se avrò tempo, cercherò di capire perché la Chiesa italiana cominciò a osare proprio a Roma, città emblematica del grande processo di cetomedizzazione che nella seconda metà del Novecento ha trasformato l’Italia. Per ora, in via di ipotesi, mi fermo alla banale constatazione che la Roma degli anni Settanta viveva in se stessa quel processo di aumento delle disuguaglianze sociali che sarebbe diventato il focus di attenzione di tutta la letteratura sociopolitica degli ultimi decenni. Non a caso la tesi della mia relazione al Convegno era che a Roma i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri. 

Qui l’intervista completa