Stando a quel che ha scritto ieri Ilvo Diamanti su “La Repubblica”, il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari dovrebbe concludersi con una schiacciante vittoria dei Sì (82 a 18 secondo il sondaggio Demos). Qualche anno fa si sarebbe parlato di maggioranza “bulgara”. Più che un referendum, si annuncia un vero e proprio plebiscito. Come don Ciccio Tumeo, il guardiacaccia del Principe di Salina nel romanzo (e nel film) “Il Gattopardo”, io sarò tra quei pochi che voteranno No; e siccome siamo (ancora) in democrazia, almeno non subirò l’oltraggio capitato a don Ciccio di scoprire che il suo voto (contro l’annessione al Regno d’Italia) era stato cancellato.
La decisione di votare No l’ho presa parecchi mesi fa, quando il dibattito sul referendum era ancora di là da venire. Oggi siamo sommersi di argomenti a favore e contro, che continuo scrupolosamente a leggere con la dovuta attenzione, ma che non mi hanno convinto a cambiare scelta.

Mi hanno indotto a pensare, però, che l’esito del referendum – sia quello assai probabile della conferma del taglio, sia quello decisamente improbabile della conferma dello status quo –  si configuri come il contrario di una “win win situation”; che qualunque risultato apra cioè la strada a una situazione in cui si perde tutti. Un po’ come nel vecchio film Wargames del 1986, con la differenza, però, che stavolta non si dispone neppure dell’opzione (risolutiva nel film) di non giocare, ossia, nel nostro caso, di astenersi dal voto (nei referendum costituzionali non c’è quorum).

Perché si perde tutti? Nel caso che il taglio dei parlamentari venga confermato dalle urne ci troveremmo con un Parlamento molto simile a quello attuale, con tutti i sui difetti e le sue inefficienze, solo ridimensionato da un taglio lineare in entrambe le Camere (del 36.5%) e, soprattutto per quanto riguarda il Senato (cui resterebbero tutti i compiti che deve svolgere attualmente), praticamente messo nell’impossibilità di funzionare. E ciò tralasciando i problemi di rappresentanza (delle forze politiche e dei territori) messi in luce da numerosi interventi (da parte dei sostenitori del No). Del resto l’obiettivo esplicito di coloro che hanno proposto questa sedicente riforma costituzionale era proprio quello di screditare il Parlamento. Non a caso a quella del taglio lineare dei parlamentari erano associate altre due proposte di riforma costituzionale (per fortuna abortite) che prefiguravano una pesante deriva verso i meccanismi pericolosi e illusori della democrazia diretta; dove appunto, nonostante che il mondo sia intrinsecamente sempre più complicato, gli argomenti più semplici sono quelli che hanno la maggiore probabilità di avere successo, anche perché “chi strilla più forte ha ragione”. Le due riforme per fortuna (o per ora) abortite erano quella del referendum propositivo (da contrapporre alle delibere delle Camere) e quella dell’introduzione del vincolo di mandato, che avrebbe trasformato gli eletti in passivi esecutori di ordini (recentemente mi è capitato di sentire in tv un esponente dei fautori del Sì che vedeva il compito dei parlamentari come quello di “premere i bottoni”, un compito – e solo in questo concordo con lui – indipendente dal numero dei parlamentari stessi).

Insomma il marchio populista e anticasta che sventola sulle bandiere dello schieramento del Sì è indiscutibile. Ma non tutti coloro che voteranno Sì sono populisti e anticasta. Vediamo allora gli argomenti del “Sì democratico”. Ce ne sono tanti. Mi limito a considerare quelli che, a mio avviso, appaiono i più significativi (ovviamente quello del risparmio di spesa è risibile). È innegabile che l’attuale Parlamento funziona male e perciò ha bisogno di essere riformato, sicché – questo è il primo argomento – tanto vale approfittare di questa occasione per mettere in moto un processo di riforma. Tanto più che, se vincesse il No, questa ennesima sconfitta metterebbe una pietra tombale su tutti i tentativi futuri di riformare la Costituzione. Altri argomenti possono essere messi a fuoco ricordando il comportamento del Partito Democratico: esso per tre volte ha votato contro la riforma costituzionale in Parlamento e si è deciso, alla fine, a dare il suo voto favorevole per motivi tattici, ancorché importanti (sbarrare la strada a un governo populista a guida Salvini), e soprattutto condizionandolo a una serie di interventi correttivi, in tema di legge elettorale e di rappresentanza.
Non sarò certo io a sottovalutare l’argomento tattico, oggi declinato nella forma “se vince il No cade il governo”; ma mi limito a osservare sommessamente che esso presenta una certa somiglianza col baratto della “primogenitura” (le norme costituzionali) col “piatto di lenticchie” (la sopravvivenza del governo).

In altri termini: siamo sicuri che ne vale la pena? E siamo sicuri che il governo non resisterebbe allo scossone della sconfitta del Sì al referendum? Decisamente meno convincente è l’altro argomento, secondo cui il successo del Sì sarebbe il primo passo lungo il percorso della nuova indispensabile stagione di riforme istituzionali e costituzionali. Nell’anno trascorso dalla formazione del governo “giallo-rosso” nulla di ciò che era stato pattuito al riguardo (legge elettorale, voto ai diciottenni per il Senato, ridisegno delle circoscrizioni e dei collegi) è stato fatto. Perché mai si dovrebbe fare dopo il voto? Purtroppo è vero anche l’argomento simmetrico: se vincesse il No, ogni prospettiva di riforma costituzionale verrebbe rinviata alle calende greche; e questo è il motivo per cui penso che anche la vittoria dei No (che pure auspico con pochissime speranze) rappresenterebbe anch’essa una sconfitta della democrazia.

Questo perché è vero che il Parlamento attuale funziona male ed è delegittimato. Ed è vero perciò che di riforme costituzionali e istituzionali abbiamo un gran bisogno. Quali riforme? Se ne è parlato tanto. Qui ne richiamo tre soltanto. La prima. Perché il Parlamento funzioni bene si deve uscire dal bicameralismo perfetto. L’unico argomento a favore della sua permanenza è che la seconda Camera consente, con la seconda lettura, di correggere gli errori della prima (un argomento falso, come sa bene chi gioca a scacchi, dove non è possibile ripetere la mossa e proprio per questo ci si pensa su prima di farla e si commettono meno errori). Entro questa logica, se proprio si voleva ridurre a 600 il numero dei parlamentari si poteva fare una riforma che prevedesse una sola Camera abolendo il Senato (oppure trasformandolo radicalmente sulla linea del Bundesrat tedesco). Troppo semplice!

La seconda riforma. Perché il Parlamento funzioni bene occorre ristabilire il rapporto tra gli eletti e il loro elettorato, allentando al contempo l’attuale legame tra i parlamentari e i gruppi dirigenti dei partiti di riferimento, legame che troppo spesso favorisce l’approdo alle Camere (ma appunto sarebbe meglio all’unica Camera) di un personale costituito da “yes men” invece che da soggetti competenti. Qui si apre la questione delle caratteristiche della legge elettorale. Di questi tempi il pendolo tra governabilità e rappresentatività sta tornando verso quest’ultima (alimentato dalla paura per un probabile successo della destra populista); il che spiega il crescente consenso per una soluzione di tipo proporzionale (anche il Partito democratico sembra aver messo la sordina alle sue preferenze per il doppio turno alla francese). Ma quale proporzionale? Fermo restando che un correttivo maggioritario più o meno ampio è inevitabile (quorum, circoscrizioni piccole, ecc.), le possibilità sono sterminate.

Semplificando molto (e ricordando sempre che il diavolo si cela nei dettagli) possiamo considerare tre schemi principali: liste bloccate (sulla falsariga delle ultime leggi elettorali), liste con preferenze, collegi (per indicare non il numero ma i nominativi degli eletti, come avveniva in due leggi proporzionali della prima repubblica, quella del Senato e quella delle Province). Se si vuole allentare il legame tra gli eletti e i gruppi dirigenti dei partiti, le liste bloccate andrebbero assolutamente evitate (ma son pronto a scommettere un euro che, se mai si farà una nuova legge elettorale, essa ribadirà le liste bloccate).

Tra gli altri due schemi, la mia preferenza va nettamente a una legge proporzionale basata sui collegi (tanto più che disponiamo di modelli che hanno funzionato bene per anni). E questo per due motivi principali: (i) i collegi riducono le spese elettorali dei candidati, e perciò il loro condizionamento e le possibilità di corruzione; (ii) dato che non il numero (che dipende dalla percentuale ottenuta complessivamente dalla lista) ma i nominativi degli eletti dipendono dalle percentuali ottenute nel singolo collegio, per poter massimizzare le proprie chances di essere eletto, il singolo candidato deve cercare di rendere  più alta possibile quella percentuale; di conseguenza deve battersi contro i candidati delle altre liste presenti nel collegio, e non contro i candidati della sua lista, come avverrebbe invece nel caso delle preferenze. E questo vincolerebbe i partiti nella scelta dei candidati. Andrebbero privilegiati (a meno di essere autolesionisti) candidati visibili e capaci di impegnarsi e di calamitare consenso. È inutile dire che non esistono soluzioni perfette. Un evidente inconveniente è quello che sarebbero favoriti i leader locali, cosa che non garantisce spesso che l’eletto sia di buona qualità per i compiti che lo attendono.  Ma è possibile che non si possa far niente per migliorare la qualità media degli eletti?

La terza riforma. Qui mi muovo su un terreno inesplorato e scivoloso. Secondo me, però, qualcosa per accrescere la qualità media dei parlamentari si potrebbe fare. La butto lì. È vero che uno dei cardini della democrazia è che ogni cittadino che goda dei diritti politici e civili debba avere la possibilità di aspirare a diventare parlamentare. Ma forse si potrebbe trovare il modo di evitare che il nostro Parlamento sia riempito di peones, spesso incapaci non dico di scrivere una legge ma neppure di leggerla.

E allora? E allora perché non istituire una lista per l’elettorato passivo (i possibili candidati di qualsiasi partito o movimento) per accedere alla quale si debba superare un esame che dimostri che il candidato possiede le basi di conoscenza che lo mettano in grado di svolgere il compito per cui appunto si candida? Nell’Ottocento, nei primi anni dello Stato italiano unitario, le leggi elettorali non prevedevano il suffragio universale, limitandolo (una volta aboliti gli odiosi vincoli di ricchezza e di censo) a coloro che sapevano appunto leggere e scrivere. Giustamente si è arrivati, sia pure con un processo lungo e tormentato, al suffragio universale, anche perché, come disse Benedetto Croce, mentre faceva la fila assieme a tanti cittadini comuni per il referendum su monarchia e repubblica, ci sono solo due possibilità, o si contano le teste o si tagliano le teste, e solo la prima è compatibile con la democrazia.

L’elettorato attivo deve essere aperto a tutti, ma perché deve essere aperto a tutti, senza condizioni, anche l’elettorato passivo? Tutti devono poter aspirare a essere eletti, ma per farlo devono mostrare, magari studiando, che se saranno eletti saranno capaci di fare il lavoro importante che saranno chiamati a svolgere, un lavoro, quello del politico e del legislatore, che è essenziale per una società democratica, come quello del medico, dell’avvocato, dell’idraulico, del fornaio o dell’operaio, ciascuno dei quali, per essere fatto al meglio, richiede studio, competenze ed esperienza.

Purtroppo sono consapevole che le riforme di cui ho parlato qui sopra non sono molto diverse da un libro dei sogni. Sono ormai vecchio. Ho sempre votato a sinistra (prima il Pci, poi il Pds, poi i Ds e infine, da qualche anno, il Pd). Essere di sinistra, per me, ha sempre significato pensare e lottare per una società migliore. E allora perché non sognare?

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