Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Alessandro Rivali

Giuseppe Conte è uno dei riferimenti imprescindibili della poesia contemporanea: cantore dei miti e del mare, di epopee e ballate, nella sua ricerca ha scelto per padri tutelari Lawrence, Sterne, Goethe, Foscolo e Shelley. L’Oceano e il ragazzo (1983), la prima opera in versi di Conte, fu salutata da Italo Calvino come un libro decisivo per il rinnovamento della poesia italiana: in effetti, era un viaggio insolito tra «animali etruschi», la «conquista del Messico» e gli splendidi «Altari achei».

Il tuo nuovo libro è molto aperto alla speranza. In questo tempo così distratto, c’è ancora spazio per la poesia oggi?

Per secoli, la letteratura e la poesia sono state la colonna vertebrale di una lingua, di una cultura e di un popolo. Oggi non è più così. Il prevalere assoluto della tecnica e dell’economia, dell’utilitarismo, dell’effimero, della moda e del consumismo come arbitri subdoli della vita delle masse, relega la letteratura, la tradizione, l’umanesimo e temo ogni manifestazione dello spirito ai margini della società, tentando di spegnerne la voce. Eppure, quando tutto sembra perduto, è allora che bisogna lottare con ancora più determinazione per quello in cui si crede. Di Ezra Pound, dei suoi Canti Pisani, mi ripeto sempre, quasi come un mantra, quei versi straordinari: «formica solitaria d’un formicaio distrutto / dalle rovine d’Europa, ego scriptor». Non conosco nessuna manifestazione di fede nella letteratura più solenne, drammatica e drastica: prigioniero in una gabbia di ferro, accusato di tradimento, con alle spalle la guerra che ha distrutto il Vecchio Continente, il poeta rivendica il suo ruolo di fabbro di parole, di custode di memorie e sogni, di banditore di idee e di conoscenza: ego scriptor. La poesia non morirà mai. È energia spirituale che porta il linguaggio al punto di incandescenza più alto del suo senso e della sua bellezza umana: si chiama canto. La poesia in cui si uniscono nel canto tutto il dolore e tutta la gioia del mondo, in cui l’anima dell’uomo cerca l’anima misteriosa, sacra dell’universo, avrà sempre spazio. È più di una speranza, credimi.

In tutta la tua ricerca è molto presente il Mito. Perché? Per molti anni sembrava bandito dalla poesia.

Il mito oggi è tornato sulla scena, spesso in modo sbagliato e superficiale, ed è stato così anche per la bellezza, entrata ora in tutti i discorsi, condita in tutte le salse, abusata, dopo che come concetto estetico era stata bandita per più di mezzo secolo. Quando ho cominciato a parlare io di mito e di natura, negli anni Settanta, era sostanzialmente proibito da una dittatura intellettuale pervasiva e feroce. Dicevo: le radici del nostro pensiero sono poetiche, il mito è la conoscenza delle origini, quella che si pone le domande eterne sui perché della vita, sul mistero, sul sacro: la natura è energia vivente, da amare, da sentire abitata da un soffio di divinità. Quante accuse mi sono state rivolte, quanto scherno. Allora io dicevo: torniamo a parlare di alberi, e i più lo consideravano un delitto (salvo accorgersi mezzo secolo dopo dell’importanza capitale degli alberi, che bisogna preservare, piantare e amare). Ma non mi sono messo paura: ho continuato a cercare la persistenza del mito nella natura, e nell’anima dell’uomo, nel suo destino sulla terra. È grazie a questa concezione del mito che ho potuto scrivere poesie e romanzi, e restare fedele al mio sogno di adolescente, di fare lo scrittore, di aggiungere qualche piccolo libro sugli scaffali della infinita biblioteca dell’universo.

Chi sono stati i tuoi maestri, sia dal punto di vista letterario, sia dal punto di vista esistenziale?

I miei maestri non sono tra i poeti del secondo Novecento italiano. Con nessuno di loro ho avuto un vero rapporto di vicinanza, salvo l’affetto e la simpatia con cui vedevo Mario Luzi. Per me sono stati importanti gli incontri intellettuali con D.H. Lawrence e con Henry Miller, di cui ho condiviso la polemica contro la civiltà industriale che distrugge la natura e crea una realtà che è un «incubo ad aria condizionata». Poi con Jorge Luis Borges, con i suoi simboli arcani, le sue Biblioteche, la sua Buenos Aires e le sue incursioni nel fantastico. Con Eliot, con Montale e la sua metafisica inaridita, con Ungaretti e il suo palpito cristiano, la sua musica meticcia che rievoca il canto del muezzin. Poi con Adonis, in seguito anche amico insostituibile, per capire la poesia orientale e gettare un ponte verso di essa. Ho imparato molto da James Hillman per la rilettura del mito, da Mircea Eliade, per l’interpretazione del sacro. Con loro avevo sostituito Marx e Freud. Quando ho cominciato a scrivere di mare, ho cercato di assorbire la tradizione di Melville, Stevenson, Kipling, Conrad. Ho amato Scott Fitzgerald, Truman Capote, Graham Greene, e un po’, devo confessarlo, anche Somerset Maugham. Ho avuto poi la fortuna di essere amico di Italo Calvino e di Mario Soldati, per me maestri della prosa, i migliori del Novecento italiano.

Quali sono i libri che ti hanno segnato di più negli ultimi anni?

Tutti quelli di Victor Hugo, che il Novecento aveva vilipeso, e che ho letto relativamente tardi, avendone una impressione di grandezza sconfinata. I libri di viaggio di Bruce Chatwin e di Michael Crichton (sì, quello di Jurassic Park). Sono poi l’unico in Italia che legge e ama Le Clézio, che qualche volta incrociavo, alto, elegante, sull’ultimo volo da Parigi per Nizza. Deserto è un bellissimo libro. A rileggerlo dopo tanti anni, ho cambiato il mio giudizio su Il nome della rosa di Umberto Eco, che mi è sembrato un romanzo molto meglio costruito della media dei romanzi italiani.

Quali gli autori che vorresti più presenti nel nostro canone? Oppure minori che per te sono maggiori?

Ho sempre in mente la poesia di Borges, uno dei miei maestri più cari, intitolata A un poeta minore della Antologia, un poeta lontano da ogni gloria, semplice nome in un indice, di cui sappiamo soltanto che sentì un usignolo, una sera. Ci sono poeti “minori” adorabili. Ma la storia la fanno i maggiori. Nella tradizione dei maggiori, in Italia, vedo oggi orribilmente sottovalutati e ignorati Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri. Anche Foscolo non gode di molta attenzione. E non vorrei che perfino Manzoni, autore centrale e decisivo, oggi fosse messo un po’ da parte. Venendo al canone della poesia del Novecento, chiederei più spazio per il Mario Novaro di Murmuri ed echi, e che finalmente apparisse nel pantheon dei grandi Camillo Sbarbaro. Mi piacerebbe che si riconoscesse il ruolo importante di un libro come Lavorare stanca di Cesare Pavese non per il suo realismo, ma per la sua potenza mitica. Infine, non vorrei che la fortuna di Caproni, dovuta alla sua cantabilità ma anche al suo nichilismo antimetafisico, nella cultura italiana media sempre molto gradito, stesse gettando ombra sui suoi contemporanei. Mario Luzi, per esempio, è indubbiamente più significativo.

Sei più per Foscolo che per Leopardi, perché?

Considero Leopardi grandissimo e il numero di pagine che occupa nella mia antologia La lirica d’occidente lo dimostra. Non conosco poesia dalla costruzione più assolutamente mitica del Canto notturno del pastore errante dell’Asia, vertice della letteratura mondiale. Diciamo che sono affinità elettive che mi portano invece verso Foscolo: uomo senza schermi di protezione familiare e aristocratica, borghese ribelle dai tanti mestieri, viaggiatore, innamorato della bellezza, convinto della funzione civilizzatrice della poesia contro la violenza guerresca dei tempi, costruttore di “illusioni” che somigliano a miti e a utopie, infine esule e povero, Foscolo mi attrae per le qualità umane oltre che poetiche. A fasi alterne, ho sentito in me la passione disperata e debordante di Jacopo Ortis e la saggezza lieve e distaccata di Didimo Chierico, i suoi due volti. E poi mi attrae la potenza civile della poesia di Foscolo. La recita corale dei Sepolcri che promossi nel 1994 in Santa Croce a Firenze davanti alla sua tomba, ricordando alla società contemporanea che la poesia italiana c’è e che resiste a ogni barbarie, resta uno dei momenti indimenticabili della mia insignificante esistenza.

Hai conosciuto Premi Nobel come Heaney e Miłosz, cosa ricordi degli incontri con loro?

Ho conosciuto anche Gao Xingjian e letto la traduzione francese de La montagna dell’anima prima che vincesse il Nobel, a tavola tra tanti chiassosi letterati parigini e bretoni, era sempre il più silenzioso, astratto, chiuso in un accenno di sorriso taoista. Anche Seamus Heaney lo conobbi prima del Nobel, in Svezia, al Festival di Malmö. Fraternizzammo di fronte a certi comportamenti arroganti dei poeti americani. La sera sua moglie cantò una canzone in gaelico, fu un bel momento. Poi lo rividi più volte. Al premio Flaiano ricordo con divertimento il suo imbarazzo nel doversi riassettare gli abiti e la chioma bianca e folta per presentarsi all’ambasciatore d’Irlanda. L’ho intervistato in pubblico a Lerici e a Cetona: difendeva con sapienza e sensibilità le ragioni della poesia. Non riuscii mai a farlo parlare dell’Ira e di Bobby Sands, cui io avevo dedicato una poesia in memoriam, che tradotta in gaelico girava per i pub di Belfast e Dublino. Ma capivo che quei temi, visti dall’interno della società irlandese, erano ben più difficili da gestire. Con Miłosz fu un incontro fuori da ogni ufficialità, un pranzo al Chez Panisse di Berkeley, lui con la moglie e io con la mia traduttrice americana. Era un uomo affascinante, di cui ricordo sempre la voracità con cui mangiò quaglie e polenta, che mi stupì non so perché, come se un grande poeta premio Nobel dovesse vivere di puro spirito. Mi parlò del destino del cristianesimo e dell’Europa, del magistero del suo connazionale Giovanni Paolo II, da lontano, dalla costa del Pacifico, con una partecipazione alta e intensa, su cui ho continuato a riflettere.

La tua inquietudine metafisica ti ha portato a studiare le diverse religioni, hai mai pensato a un tuo “ritorno” al cattolicesimo?

Ho esplorato, in quella che tu chiami inquietudine metafisica, le religioni sciamaniche (negli anni Settanta leggevo Alce nero parla come un Vangelo della natura) e quelle orientali, per poi arrivare all’Islam. Quei versi di Goethe nel suo Divano occidentale-orientale mi colpirono enormemente: «Se islam vuol dire sottomissione a Dio / noi tutti viviamo e moriamo nell’Islam». La radicalità spoglia del monoteismo islamico, la preghiera collettiva, il misticismo Sufi, il fervore di giovinezza quasi turbolento nelle moschee il venerdì mi attrassero. Studiai l’islam, cercai di capirne l’essenza. Ma non ho mai rinnegato la religione in cui sono nato. Dopo anni in cui mi sembrava di esserne andato molto lontano, ho ripreso a sentirla vicina. Anche se trovo bellissimo l’inizio di ogni Sura: «In nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso» le preghiere che recito rimangono il Padre Nostro e l’Eterno riposo: a cui, da poco, dopo la morte di mia madre, si è aggiunta l’Ave Maria, come se insieme al Padre fosse arrivato il momento di rivolgersi anche alla Madre divina da cui tutto ha vita. Al funerale di mia madre, ho ringraziato piangendo il sacerdote per le preghiere davanti al feretro, per l’aspersione rituale dell’acqua benedetta e dell’incenso: niente avrebbe potuto commuovermi e consolarmi di più.