Sovente la celebrità e la stessa rilevanza culturale dei “giganti” del nostro tempo resta legata ad una affermazione, un’intuizione, un’idea descrittiva, una sintesi fotografica, efficace e geniale, che spiega in modo suggestivo analisi complesse e approfondimenti che vanno oltre le semplificazioni della definizione e del concetto in se’, spesso banalmente utilizzato per prodotti utilitaristici e commerciali, alla stregua degli stessi pericoli ravvisati in una visione consumistica ed autoreferenziale della vita stessa.

Così è stato per Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo di origine polacca ma di vocazione e declinazione prima occidentale e poi cosmopolita: la sua “società liquida” è stata forse la suggestione culturale più efficace e colorita per descrivere i fenomeni del nostro tempo e la collocazione dell’uomo negli eventi, nei disagi e nei conflitti della contemporaneità.
Ricordo con devota riconoscenza la descrizione interpretativa che il fine Teologo Mons. Bruno Forte mi diede nel corso della sua intervista per un settimanale cattolico: la metafora del “naufragio dell’uomo” ripresa da Lucrezio, che segnala la crisi di tutti gli ancoraggi e tutti i riferimenti sicuri e assoluti e si collega alla ‘modernità liquida’ dove non ci sono più approdi o certezze, dove sembra che tutto sia fluido, inafferrabile.

Secondo Mons. Forte Bauman cerca in questo mare della insicurezza post-moderna la possibilità di una ulteriorità: costruire, assemblare con tavole che forse provengono da altri naufragi, una barca con cui continuare il viaggio. È questa la condizione nella quale ci troviamo e questa barca da assemblare ha bisogno certamente anzitutto dell’assunzione delle diversità, di una sorta di meticciato in cui le identità possano convivere.
Di certo il pensiero e le argomentate e suggestive riflessioni di Bauman sono state un riferimento imprescindibile per il pensiero contemporaneo.

Dietro di lui una lunga scia di “traduttor dei traduttori”, discepoli più o meno diligenti e ortodossi ma tutti indistintamente colpiti e segnati dalla capacità del “maestro” di leggere, tratteggiare, analizzare, portare a sintesi la descrizione di un’epoca centrata sulla fiducia nell’uomo iniziata da molto lontano, con le speranze dell’illuminismo e conclusa con una deriva di involuzione del concetto stesso di modernità e di democrazia.
Nessuno come Bauman ha saputo cogliere lo spaesamento dell’uomo contemporaneo in una società dove sono venuti meno- ad uno ad uno – i punti di riferimento rassicuranti che costituivano la base dell’idea di progresso e di miglioramento della condizione antropologica ed esistenziale.
Al centro di tutto il conflitto tra natura e cultura, tra essere e divenire, tra tradizione e innovazione, conservazione e progettualità, rispetto dei modi e dei tempi di una vita finora rassicurante.

E a seguire, l’uso distorto – ora strumentale e ora finalizzato – delle nuove tecnologie, le difficoltà di gestire l’evoluzione in chiave di progresso, la centralità della persona e dei suoi bisogni primari (libertà, autonomia, capacità di elaborare un pensiero critico, di finalizzare il senso stesso della vita oltre i bisogni artificiali creati da una società dove la logica del profitto prevale su quella dell’identità, l’uso del denaro diventa abuso dei valori fondativi della cultura umanistica, mentre il declino delle istituzioni accompagna questa decadenza dei valori e della loro impagabile gratuità).

Acuto e spietato studioso della “globalizzazione”, nei suoi aspetti più deteriori: declino del valore della solidarietà e mistificazione della retorica del pan-consociativismo retto sugli alibi di una improbabile trasparenza e di una ancora più cruenta intrusione nella dimensione personologica e nei suoi valori correlati, perdita di ogni approdo valoriale e culturale, fondazione dell’idea di progresso sulla sistematica violazione del principio di natura.
Derive di declino e di involuzione ora di matrice nichilista se non di sapiente, orchestrata regia del tentativo di narcotizzare il pensiero nelle formule descrittive preconfezionate, una sorta di istituzionalizzazione e commercio dei luoghi comuni, prodotti che si trovano negli scaffali della omologazione, dell’appiattimento culturale, dell’obsolescenza del pensiero critico e del dubbio e che spostano dall’interno all’esterno dell’uomo i luoghi di elaborazione degli stili di vita individuale e dei modelli sociali in cui più facilmente riconoscersi.
A cominciare dalla perdita del valore della memoria come luogo di sedimentazione della cultura e di elaborare una progettualità fondata su solide, rassicuranti radici, per proseguire con il miraggio delle teorie del ri-cominciamento, quell’anno zero che deve ancora venire, sede e spiegazione dell’esistenza fondata sull’eterno presente e della vita come cifra dell’attesa e del rinvio.

Un mondo indefinito, incompiuto, imperfetto, incerto dove ci si perde nel pantano della compresenza simultanea della totalità della realtà e della indecifrabile lettura di questa tessitura di opposti e di contrari.
Tema che mi fa pensare all’aforisma più significativo di quel capolavoro teatrale di Thomas Bernhard – “Il riformatore del mondo” : “nella nostra vita siamo molto più impegnati a preparare che a fare”, che riassume e spiega in modo dissacrante l’inconcludenza della retorica della post-modernità, quel “faire et en faisant se faire” che tutti ci invischia in una sorte di “notte in cui tutte le vacche sono nere”, come ripeterebbe Hegel.
E poi lo smarrimento cosmico dell’uomo che si estende al disorientamento dell’umanità e in esso realizza il senso dell’inconcludenza, privando il mondo di motivazioni fondative del vivere, del socializzare, del dialogare.

Noi e gli altri: tema sotteso in ogni passaggio significativo del pensiero di Bauman, nella sua valenza di reciprocità tra le due entità, quella singolare e quella plurale.
L’individualismo sfrenato che emerge con la crisi della comunità, rende fragili i contorni della società e la trasforma, appunto, in una entità liquida, dove tutto è possibile, nel trionfo del relativismo culturale e di un mondo dell’apparire più che dell’essere.
Fino a paventare una crisi del modello statuale e istituzionale ereditato dall’800, attraverso uno stereotipo partecipativo dove ciò che è scontato, precostituito e imposto dall’esterno prevale sulle motivazioni ideali che finora hanno fatto la storia.

Quando l’analisi tocca la politica nella sua dimensione ordinativa ed interpretativa della realtà sociale ed istituzionale e soprattutto nella esplicitazione della sua ragion d’essere, diventa per me inevitabile il richiamo a Max Weber non tanto in termini paradigmatici (non si può prescindere dalla contestualizzazione storica come fonte privilegiata di comprensione) quanto per l’ampiezza dell’analisi e la solidità della sintesi, proiettata alla definizione dell’idea di senso della ‘politica come professione’, depositaria di una missione nobile, quel beruf che letto con gli occhiali della contemporaneità appare sfocato e quasi privo di senso.

«Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».
E addio Bauman, straordinario lettore delle derive oligarchiche e populiste della contemporaneità.
Insieme al tuo pensiero ci lasci l’ineffabile gusto di vivere e la ricerca della libertà come luogo indefinito e indefinibile dell’esistenza.