Non tutti nel Pd si lasciano travolgere dal superficialismo. Ne è riprova l’intervista di ieri sul “Corriere della Sera” del Ministro Franceschini.

Alla retorica del bollettino della vittoria, egli contrappone la fredda constatazione della realtà.

Dice il Ministro: “(…) non vorrei che da un eccessivo pessimismo passassimo ad un eccessivo ottimismo. Perché la vittoria in Emilia-Romagna non vuol dire aver ancora vinto in Italia. Intanto abbiamo perso in Calabria. E le prossime Regionali non saranno facili: il centro-destra è molto forte e pericoloso”.

E così, sciorinando obiezioni e preoccupazioni, Franceschini alza il muro del realismo a protezione di una certa idea del Pd. Un’idea che sconta la complessità del “partito unico dei riformisti” – così potremmo definirlo per le sue scaturigini politico-filosofiche identificabili nelle relazioni (Scoppola-Gualtieri-Vassallo) del convegno di Orvieto del 2006 – ma non fa sconti all’inquieto complesso della sinistra a viversi unicamente come sinistra, amando se stessa sopra ogni cosa.

Franceschini tiene il punto sulla questione delle alleanze, come dovrebbe fare chiunque abbia a cuore l’inoppugnabile lezione dell’esperienza democristiana, lungo la linea Sturzo-De Gasperi-Moro.

La forza di questa linea consiste nel dare a Cesare quel che è di Cesare, ovvero nella restituzione del Pd al suo carattere di “soggetto unificante”, in sé e per sé, nel quale convivono sensibilità diverse come d’altronde possono e debbono convivere in un ambito più ampio. Dentro una coalizione, appunto.

Il problema, allora, non è solo del Pd. Bisogna capire cosa significhi la costruzione di una nuova coalizione, se il punto saliente è la formazione di una “sinistra onirica” (Pd-M5S) o non invece il recupero del “centro popolare” a un ruolo visibile e concreto, secondo un disegno di “nuovo centro-sinistra”.

Con Franceschini, insomma, si può e si deve ragionare.