E’ un’immagine depauperata quella della Scuola italiana dei prossimi anni che esce dal Rapporto OCSE “Education at a glance 2019” : colpisce il dato negativo quantitativo rispetto al numero di alunni e docenti attuali. Potremmo chiamarlo un ridimensionamento sistemico, peraltro in linea con tutti gli altri indicatori standard dello sviluppo o della stagnazione di un Paese. Da noi prevale il segno meno sotto diversi profili di considerazione, basti ricordare il precedente rapporto dello stesso Istituto parigino di analisi dei sistemi formativi e ricordare il trend negativo marcato sulla “fuga dei cervelli”all’estero. Un rapporto di tre mesi fa, non del decennio precedente, che potrebbe utilmente invitare alla rilettura della (altrettanto recente) Ricerca di Sgritta e Raitano della Sapienza su “Generazioni tra conflitto e sostenibilità”: una documentata,  rigorosa analisi sugli equilibri sociali possibili in futuro.  Per non parlare di PIL, nuove imprese, occupazione giovanile, mercato del lavoro, start-up, grandi opere, infrastrutture, ricerca pura e applicata: caleidoscopici frammenti di una realtà oggetto di studi e analisi condotte dall’Istat e dal CENSIS, senza che la politica nel suo complesso ne abbia avvertito la rilevanza e la potenziale utilità in chiave di programmazione economica e di modelli sociali da perseguire.

Per citare solo alcuni aspetti dell’attuale fase di stagnazione economica, in attesa che – dopo aver ascoltato tutti i soloni della crescita e dello sviluppo o quelli nostalgici della decrescita infelice – qualcuno prenda atto di una realtà che nessuno è stato in grado di focalizzare in tutta la sua incipiente criticità.  Ancora prima di esaminare profili di qualità del servizio reso all’utenza dal sistema scolastico del nostro Paese in un’ottica comparativa con gli altri modelli funzionanti nella galassia OCSE, il Rapporto pubblicato il 10 settembre 2019, evidenzia una deriva di saldo numerico negativo. Sul fronte dei docenti l’OCSE rileva un’età anagrafica più alta della media europea (il 59% degli insegnanti sono ultracinquantenni), e di converso la quota percentuale più bassa nella fascia 25/34 anni, mentre i salari sono tra i più bassi dell’area U.E.

I recenti provvedimenti sulle pensioni (leggasi quota 100 ) potrebbero accelerare l’uscita dal servizio dei docenti più anziani e favorire il turn over. Occorre richiamare tuttavia i dati allarmanti sul decremento demografico: l’Istat – nel suo ultimo Rapporto annuale – ha definito l’Italia un Paese con le culle vuote e tendente all’invecchiamento: A fronte di una popolazione totale di 60,4 milioni di abitanti nel 2019 si prevede una riduzione a 58,2 milioni nel 2050: impensabile sperare che il calo non riguardi anche il sistema scolastico. Sul fronte studenti cresce peraltro contemporaneamente la cosiddetta “area Neet” (dall’acronimo di Not Engaged in Education, Employment or Training) che assomma i giovani nella fascia 18/24 anni che non studiano, non lavorano e non cercano un’occupazione: la media italiana è del 26% rispetto a quella OCSE del 14 %, con un indice di crescita fino al 37% per le ragazze fino ai 29 anni.

Anche sul fronte della popolazione laureata il confronto è perdente nell’ampiezza del target considerato: il 19% dei 24/64enni contro una media OCSE del 37%, questa concentrazione verso percentuali più basse favorisce remunerazioni più alte per i laureati rispetto ai diplomati, ma in un range sempre inferiore agli standard OCSE (37% contro un abbondante 57%). Questo spiega e richiama il citato precedente Rapporto OCSE sulla fuga dei cervelli perché questi dati favoriscono l’esodo all’estero dei laureati italiani che non è compensato da un eguale ingresso dei pari titolo stranieri né delle cd. “alte professioni”.

Ciò significa che in linea di tendenza esportiamo talenti ed importiamo manovalanza.

Altra nota dolente è il rapporto tra spese per l’istruzione (sistema scolastico e ricerca) e PIL: l’Italia impegna attualmente un 3,6% del suo PIL per l’istruzione, dalla primaria all’università, contro una media OCSE del 5%, peraltro – si noti bene – con un decremento del 9% sul totale nel periodo 2010/2016, nonostante le promesse contrarie dei governi succedutisi alla guida del Paese. Un Paese che non investe in istruzione e Ricerca è destinato ala soccombenza economica e culturale poiché questa deriva negativa sommata al decremento demografico colpisce le giovani generazioni sul fronte dello studio e del potenziale lavorativo.

Un gap ampiamente già rilevato e segnalato in passato senza che sia intervenuta una significativa inversione di rotta che avrebbe invece assecondato ed emancipato le potenzialità del sistema formativo italiano, per tradizione culturale consolidata ed equilibrio tra sapienza ricevuta, metodologie didattiche collaudate e tendenza ad una innovazione non assecondata per mancanza di fondi adeguati.

A cominciare dalla scuola dell’infanzia per la quale l’OCSE rileva un indice di iscrizioni del 94% sul target 3/5 anni, ben superiore alla media dei paesi analizzati dall’organizzazione e dalla scuola primaria che per qualità e programmi resta pur sempre una delle più avanzate al mondo.

L’indice di scolarizzazione è dunque inizialmente elevato ma cala crescendo nel curricolo degli studi: si tratta del fenomeno della dispersione scolastica che altri Paesi (si cita ad es. la Francia) hanno studiato scandagliando le aree geografiche e sociali  secondo i parametri del rischio educativo e del disagio scolastico. L’abbandono cresce con l’incedere dei gradi di istruzione e contribuisce infine ad incrementare l’area Neet già considerata.

Ciò nonostante il nostro Paese abbia prodotto una legislazione molto avanzata in tema di diritto allo studio.

Il problema restano le risorse destinate all’istruzione, il loro rapporto negativo con il PIL fino ad un saldo in decrescita anziché – come sarebbe necessario – in aumento e la considerazione radicata nell’immaginario politico e sociale di parte del Paese circa l’improduttività del sistema scolastico.

Una storia datata che ci trasciniamo da decenni e che influisce – all’analisi impietosa dei dati e delle percentuali – sulle valutazioni non del tutto lusinghiere che ci riserva l’OCSE e che in parte ci meritiamo.

Occorre una svolta significativa, forse epocale per evitare che il nostro sistema formativo non regga la competizione con i sistemi scolastici degli altri Paesi, in termini di esiti qualitativi e di risultati legati alla crescita generale. Più risorse, più fiducia nella scuola, più lungimiranza, da parte di una classe dirigente che ha finora in parte eluso le straordinarie potenzialità di cui istruzione formazione e ricerca sono portatrici.