Ricordo di una conversazione con Marcello Pera – ex Presidente del Senato

Interessante storicamente la sintonia culturale di Marcello Pera con Papa Ratzinger sul cattolicesimo liberale: letta oggi invita ad approfondire anche i temi del cattolicesimo sociale secondo Papa Francesco, specie nella sua recente enciclica "Fratelli tutti"....

Tratto dal libro “Dove va la politica? Dialoghi con personaggi della politica italiana” – edizioni Selecta, 2011 (a cura del Centro Culturale Giorgio La Pira di Pavia)


Presidente Pera, nel Suo libro “Perché dobbiamo dirci cristiani – il liberalismo, l’Europa, l’etica” ed. Mondadori – dicembre 2008, Lei affronta tematiche essenziali alla comprensione delle derive culturali del nostro tempo e fondamentali per dare un senso e un orientamento alla nostra civiltà. Quali sono le ragioni di questa profonda e organica riflessione?

Parto da un dato, che è ormai molto riconosciuto. Stiamo attraversando una crisi che ha molti aspetti e cause, ma con una componente principale: quella morale e spirituale. In una parola, non sappiamo più bene chi siamo, quali sono i capisaldi della nostra cultura, quelli che dobbiamo conservare per evitare che essa degeneri o si affievolisca o scompaia. Le parole “dialogo”, “tolleranza”, ospitalità”, “multiculturalità” sono lì a dimostrare l’esatto contrario di ciò che vorrebbero denotare, cioè la forza dei nostri regimi liberaldemocratici. Invece sono il rivestimento verbale nobile della nostra debolezza. Non sapendo rispondere alle domande: chi siamo? In che cosa crediamo? preferiamo dire che siamo aperti a tutto e tutti. Questo è precisamente il segno della crisi.

Uno dei temi più affascinanti che Lei prende in considerazione sotto il profilo culturale è quello della correlazione tra dottrina liberale e religione cristiana come suo fondamento. Scrive infatti: “liberalismo e cristianesimo sono congeneri, togliete al primo la fede del secondo e anch’esso scomparirà”. Ci spiega il significato di questa affermazione?

Il liberalismo, basta guardare alla sua storia a partire almeno dal Seicento, è la dottrina dei diritti individuali inviolabili o, come si diceva un tempo, dei diritti naturali. Io sono diverso da te in tutto: forza, ricchezza, aspetto, status sociale, eccetera, ma io sono libero come te e uguale a te. Perché io sono persona, ho dignità in sé, sono meritevole di rispetto in quanto uomo. Si badi bene: in quanto uomo, prima ancora che in quanto cittadino. Ora la questione è: da dove deriva questa uguaglianza di diritti inviolabili? Da che cosa dipende questa intrinseca libertà e uguaglianza di tutti, ribadisco tutti, gli uomini? Deriva da una fede: che gli uomini sono stati creati a immagine e somiglianza del loro Creatore. Perciò esiste la famiglia umana, perciò siamo tutti fratelli, perciò abbiamo tutti gli stessi diritti. Chiaramente, questa è la fede giudaico-cristiana. Che i diritti naturali o fondamentali si siano poi “laicizzati”, che siano diventati norme di diritto positivo e costituzionale, non elimina questa genesi concettuale, non solo storica. Senza la fede nell’uomo immagine di Dio non ci sono le nostre libertà, o, se ci sono, sono sempre a rischio.

Il Suo argomentare non poggia tanto sulla folgorazione di una conversione ma sulla razionalità logica di una scelta fondante: senza l’etica cristiana si assisterà al declino del pensiero occidentale fino al suo tramonto. E’ così? E allora perché l’Europa – culla della civiltà occidentale –  ha finito con l’essere il continente più scristianizzato al mondo, al punto di negare una matrice culturale e quindi una identità cristiana nei suoi atti costitutivi?

Questa Europa è post-cristiana e anticristiana. È anche colpevolmente immemore: non si ricorda più quali tragedie visse quando divenne pagana e materialista. Antifascismo e anticomunismo (ma più il primo che il secondo) sono considerati valori, sono predicati e celebrati. E però si dimentica che fascismo e nazismo e comunismo e antisemitismo furono i frutti dell’Europa anticristiana. Oggi l’anticristianesimo esplicito di allora è sostituito dal laicismo, dal relativismo, dallo scientismo. Il cristianesimo, i valori cristiani, la tradizione cristiana sono considerati un freno al progresso morale, alla conoscenza scientifica, alla libertà civile. Si pensa di essere liberi senza fede, senza verità, senza responsabilità. C’è chi dice che questo dipende dall’illuminismo, ma è in gran parte un errore perché Locke, che dell’illuminismo pose le basi, e Kant, che ne fece sistema, pensavano esattamente l’opposto. Erano laici che tributavano omaggio al cristianesimo. A mio avviso la principale causa dell’apostasia del cristianesimo in Europa dipende dal fatto che l’Europa, ancora afflitta dai sensi di colpa, cerca di rifiutare qualunque pensiero sufficientemente forte da darle identità e cerca di evadere da qualunque posizione sufficientemente decisa che importi responsabilità. Quasi preferisce perdere se stessa pur di non dichiarare quello che è o vuole essere.

Leggendo il Suo libro ci si imbatte in un quesito culturale quanto mai vivo e attuale: quali sono le difficoltà intrinseche nel concetto e nella pratica della multiculturalità? Cioè a dire: fino a che punto è possibile realizzare un dialogo tra culture e religioni senza che ne vengano compromesse le reciproche identità? Dobbiamo temere un futuro di relativismo etico, una sorta di ‘notte in cui tutte le vacche sono nere’, per dirla con la filosofia? Fino a che punto dunque si po’ parlare di dialogo interculturale piuttosto che di dialogo interreligioso? 

Un dialogo interreligioso lo ritengo impossibile, per una ragione concettuale decisiva: ogni religione è un sistema vero costituito attorno ad un nucleo dogmatico creduto per fede. Il cristianesimo, in più, è costituito attorno ad un fatto: che Dio è entrato nella storia facendosi uomo in Gesù Cristo. Questi nuclei e questi fatti non possono essere messi in discussione: o li si ammette o, se li si rifiuta e corregge, si è fuori da quella religione. Ma un dialogo richiede esattamente il contrario: che non ci siamo dogmi né fatti indiscutibili, che le verità possono essere corrette. Per questo il dialogo fra le religioni, “in senso stretto”, come dice il Papa, non è possibile: nessun fedele può mettere tra parentesi la propria fede o sottoporla alle critiche. Con le culture il discorso è diverso. Le religioni non sono solo sistemi di fede, hanno delle conseguenze morali e culturali. Ad esempio, come ho detto prima, una conseguenza del cristianesimo è l’idea della fratellanza umana, della uguaglianza. Queste idee benché di origine religiosa non sono solo religiose, possono perciò essere condivise anche da credenti di religioni diverse. Perciò quando la discussione si sposta dal piano strettamente religioso a quello culturale, il dialogo, che prima era impossibile, diventa possibile, e anche fecondo. Si può discutere, ad esempio, se l’uguaglianza, la parità uomo-donna, il rispetto per i deboli, il valore della vita, la dignità della persona siano valori culturali migliori dei loro opposti. Naturalmente, la discussione non è facile, condizionata com’è dalla religione di sfondo, ma non ha ostacoli di principio. Con un po’ di sforzo di volontà ci si intende. È su questo terreno che possiamo e dobbiamo discutere con gli islamici.

Il “Velut si Christus daretur” ha prodotto i migliori risultati, infatti la scelta cristiana di darsi a Dio ha grandi vantaggi anche nell’etica pubblica: dare senso e dignità alle nostre azioni, operare secondo coscienza, agire per realizzare con onestà il bene comune. Sono questi i fondamenti etici cui possiamo ispirarci per  restituire una direzione di marcia a questa epoca così ibrida e attraversata da mille conflitti e contraddizioni morali? Senza un “faro” che illumina la via della verità e del bene potremmo orientarci da soli?

Per un laico, “velut si Christus daretur” vuol dire una cosa importante: che esiste un limite, che non tutto è concesso, che la nostra libertà non è arbitrio o licenza. Insomma, che non c’è libertà senza verità. La conseguenza di questa ammissione, specie per la nostra vita morale, è enorme: ammettere il senso del limite, che vuol dire il senso del proibito, del peccato, del non fattibile, aumenta la nostra responsabilità. Se hai un modello in un Uomo da seguire, se riconosci i suoi Comandamenti, se non pensi che tu sei arbitro assoluto del bene e del male, allora non ti lascerai andare a qualunque libertà ti convenga o a qualunque diritto ti torni utile o a qualunque conquista ti faccia felice. 

Quali spunti e motivi di riflessione possono offrire i quesiti etici e culturali da Lei posti ad un dibattito politico fondamentalmente orfano delle ideologie e del pensiero ‘alto’ ma prigioniero di temi asfittici e caratterizzato da conflittualità radicate?

Ho parlato di responsabilità, e questo credo che sia il punto vero. Le ideologie tramontate ci hanno lasciato il vuoto e il nichilismo. Oggi si crede che questo vuoto ciascuno possa riempirlo alla propria maniera. Ma questo è pernicioso, occorre una cornice di principi e valori fondanti. Questa cornice la politica non la dà, ridotta ormai com’è a amministrazione, quando va bene. E siccome non la danno più neppure le ideologie, io credo che una riflessione su se stessi, un recupero di interiorità e spiritualità, sarebbe cosa assai utile.

Il Suo dialogo con Papa Benedetto XVI – che ha scritto la prefazione al Suo testo– si era già concretizzato nel 2004, con la pubblicazione del precedente libro, “Senza radici” scritto con l’allora Cardinal Ratzinger. Del Santo Padre Lei ha scritto: “di Ratzinger posso dire che questo mio lavoro non ci sarebbe stato se lui non avesse scritto, parlato e non testimoniasse ciò di cui scrive e parla”. Scrive a Sua volta il Papa: “Il liberalismo per essere fedele a se stesso può collegarsi con una dottrina del ‘bene’ in particolare quella cristiana che gli è congenere offrendo un contributo al superamento della crisi”. Questa affinità di pensiero spiega anche il concetto stesso che sta alla base della Sua recente opera e cioè la correlazione possibile e utile tra liberalismo e cristianesimo?

Direi di sì. Il liberalismo, specialmente ora che siamo tutti liberali, a cominciare dagli ex-comunisti, gode tuttavia di vita grama e difficile. Anche fra i cattolici. Chi lo osteggia a causa dell’eredità anticlericale ottocentesca, chi ne diffida a causa della sua alleanza col capitalismo, chi lo sospetta di atteggiamenti antireligiosi, a causa della sua idea della piena libertà di coscienza. Io ho cercato di mostrare che il liberalismo è una dottrina impegnativa e esigente, non quella del ciascuno faccia come gli pare come oggi si crede. E per farlo mi sono richiamato alle sue radici concettuali cristiane. Credo che il Papa sia sta colpito da questo punto: se il liberalismo è autentico, non c’è ragione neanche da parte della Chiesa di dubitarne, come ha fatto più volte in passato. Qui dobbiamo superare il passato, quando i liberali erano anticlericali e i cattolici clericali, quando la Chiesa era una potenza terrena e il liberalismo una forza antagonista. In questo senso, del liberale che si riconosce nelle sue radici religiose, il mio libro può essere anche un contributo a superare una disputa storica fra laici e credenti. Quella storia è finita. O meglio: a quella storia dobbiamo porre fine se vogliamo salvarci.

Solo la speranza colma la frattura tra la condizione percepita dalla ragione come ‘necessaria’ e la realtà delle cose. Possiamo allora dire con Charles Peguy  “la fede che più amo è la speranza”. A chi si rivolge il laico e liberale Marcello Pera per coltivare le ragioni di una possibile speranza?

Mi piace la frase di Peguy. Ne condivido lo spirito. Perciò mi rivolgo in primo luogo a me stesso e a tutti quelli che hanno le mie stesse preoccupazioni. I tempi non sono facili. Occorre la speranza, che però è una virtù forte, non la semplice attesa di chi si lascia andare convinto che poi le cose si aggiusteranno da sé. Mi piacerebbe che i miei interlocutori discutessero e almeno prendessero in considerazione i problemi che ho sollevato. Purtroppo, specialmente con i cosiddetti “laici,” siamo ancora alla fase della denigrazione e della derisione o della supponenza. È in crisi anche il costume intellettuale.

Presidente, mi pare che il senso più compiuto della Sua riflessione vada oltre il celebre “perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce. Si tratta infatti di spiegare convintamente le ragioni per cui “dobbiamo” dirci cristiani. Essere fedeli fino in fondo ad una tradizione di cui siamo figli. E’ così?

Per me, è così. “Dobbiamo” indica un impegno morale, e lo sforzo intellettuale e pratico per realizzarlo.