La tesi del superamento del binomio “destra/sinistra” circola da tempo sui giornali e nel dibattito politico. Soprattutto in due casi. O viene pronunciata a bassa voce oppure viene utilizzata (in chiave strumentale) per proclamarsi “diversi” rispetto al quadro politico esistente. Nel tentativo di rinnovarne l’offerta.

Una seria riflessione sull’attualità delle categorie “destra” e “sinistra” in realtà non è mai stata fatta dalle forze parlamentari. Un po’ per la sacralità del tema, un po’ per l’istinto di sopravvivenza dei partiti che su quella distinzione hanno costituito tratti identitari difficili da mettere in discussione. 

Contrariamente a quanto si crede, però, la definizione di cosa sia “destra” e cosa sia “sinistra” è presente nel pensiero politico. In questa sede interessa chiedersi se queste categorie sono ancora adatte a riassumere in modo accurato – e rispondente alla realtà – il panorama delle diverse posizioni. Le categorie politiche, infatti, non sono destinate a durare in eterno. Esse riflettono, invece, lo “spirito del tempo” (Zeitgeist come dicono quelli bravi) in cui viviamo.

Nel caso italiano, vi sono alcune specificità storiche che sembrano supportare la tesi della sopravvenuta irrilevanza delle categorie politiche per come le conosciamo. La maggior parte degli analisti concorda ad esempio sul fatto che una “destra” vera e propria, analoga a quella presente nei Paesi occidentali, in Italia non sia mai esistita. Certamente non lo era il Msi, troppo legato al passato fascista. Ben nota è l’anomalia sul fronte opposto. La presenza del più grande partito comunista del mondo occidentale, infatti, ha impedito il dispiegarsi di una vera forza socialdemocratica, le cui funzioni venivano svolte in parte dalla sinistra Dc e in parte dal Partito socialista (prima dell’avvento di Craxi). La conventio ad excludendum ha fatto il resto: anche quando il Pci si è esplicitamente allontanato da Mosca (in seguito allo “strappo” di Berlinguer) e si è avvicinato a una sinistra legittimata nel gioco democratico, gli equilibri di Yalta ne hanno impedito l’ingresso stabile nell’area di governo e hanno determinato l’impossibilità pratica di costruire una vera “democrazia dell’alternanza” (la “terza fase” progettata da Moro).

Il crollo del Muro di Berlino (di cui si festeggia in questi giorni il 30° anniversario) e l’avvio della Seconda Repubblica non ha, contrariamente a quanto si pensa, determinato la definizione di un quadro competitivo tra “destra” e “sinistra”. La linea di demarcazione tra le offerte politiche era semplicemente tra “pro Berlusconiani” e “anti Berlusconiani”. Tra i primi non vi è mai stato neanche l’accenno di una destra realmente liberale. Così come nella “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto e nel successivo Ulivo di Prodi non erano presenti i tratti di una moderna socialdemocrazia europea ma piuttosto il tentativo di sommare i tratti culturali delle diverse culture politiche. E così, proprio mentre nel mondo si dispiegava la “grande crisi”, l’Italia ha impiegato un quarto di secolo a cercare stabilità nelle varie riforme dell’assetto elettorale e istituzionale (dal “Mattarellum” al “Porcellum”).

Possiamo dunque notare come i 25 anni della Seconda Repubblica hanno ulteriormente slabbrato il senso di appartenenza dell’elettorato alle categorie politiche “destra” e “sinistra”, così come venivano intese nella prima metà del Novecento.

Sono in molti a essere convinti che la nuova linea di demarcazione tra le offerte politiche passa attraverso una faglia, ancora in divenire, ma i cui tratti cominciano a essere piuttosto chiari. Da una parte c’è chi è convinto che la realizzazione dell’individuo non può che passare attraverso una continua evoluzione dei comportamenti, l’ampliamento delle opportunità, la dimensione sovranazionale, il multilateralismo e la tutela dei diritti civili e della libertà economica.

Dalla parte opposta vi è invece chi predilige una dimensione più statica rispetto ai desideri dell’individuo, indipendentemente dal contesto. Le parole d’ordine sono protezione dai cambiamenti, dimensione nazionale o sub-nazionale della rappresentanza, disintermediazione politica con legame diretto tra leader e popolo, richiamo ai valori tradizionali (Dio, patria, famiglia) in un generico “prima gli italiani”. L’ampliamento delle opportunità è visto perlopiù come una minaccia rispetto alla ricerca delle sicurezze del mondo pre-globalizzazione e i limiti all’azione politica non sono predeterminati dalle condizioni del contesto ma unicamente dalla volontà e dai desideri degli elettori. In fondo, anche la “svolta del Papeete” voleva essere il tentativo di rispondere politicamente a stati d’animo presenti nell’elettorato.

E’ questo il futuro scenario delle categorie politiche? In realtà nessuno può saperlo, per almeno due motivi. Non è dato sapere infatti se la “grande crisi” sia realmente finita e se il percorso di aggiustamento possa essere più lungo di quanto previsto. In fondo, negli ultimi 25 anni non abbiamo assistito soltanto al crollo di questo o quel partito politico, ma al crollo di equilibri e di pilastri sociali, politici ed economici che duravano da decenni.

In una fase quindi ancora necessariamente molto incerta, non vi sono certezze a cui aggrapparsi. Non si vedono porti sicuri nei quali approdare, non si registrano parole d’ordine rassicuranti che forniscano l’illusoria speranza che in fondo “ha solo da passà a nuttata”. Esiste però la necessità di guardare alla società per quello che è diventata e provare a definire nuove prospettive che possano rivalutare una visione “centrista” della politica (nel senso migliore del termine). Un centro di gravità ben strutturato è garanzia di stabilità dell’intero sistema.