“Scene terribili all’aeroporto. Eccezionali, gli italiani”. Colloquio con Fabio Angelicchio (La7) sul ritiro da Kabul.

L’inviato del telegiornale di Mentana racconta a “Il Domani d‘Italia” le ore, angosciose e interminabili, trascorse nell’inferno dell’aeroporto di Kabul. Una testimonianza ricca di considerazioni importanti su come il contingente militare italiano ha gestito il ritiro dall’Afghanistan, ora di nuovo nelle mani dei Talebani.

 

Lucio D’Ubaldo

 

Di ritorno da Kabul non ha avuto tempo per tirare il fiato e mettere in ordine il puzzle delle cose viste, avendole raccontate pressoché in diretta. Fabio Angelicchio, inviato de “La7”, ha fatto parte del gruppo di giornalisti che il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha voluto al seguito della missione lampo per riportare a casa i militari italiani e molti collaboratori afghani. Adesso, fermo per la quarantena a casa e libero dalle urgenze più immediate della cronaca televisiva, accetta di buon grado di “confessarsi” all’indomani di questa delicata operazione.

 

Hai vissuto momenti davvero difficili. Levacuazione, come si poteva immaginare, ha richiesto un grande sforzo operativo. Lattentato dellIsis-K ha reso ancora più drammatica la gestione dellaeroporto. Che sensazione riporti alla luce della tua esperienza?

 

Devo dire, prima di tutto, che i militari italiani si sono distinti per efficienza e abnegazione. Sono stati ammirevoli, non hanno perso mai la calma, non si sono mai sottratti al contatto umano con le persone accampate attorno alla pista. Un giovane in divisa mi ha detto a un certo punto che non dormiva da tre giorni. A vedere il colonnello che rispondeva a tutti, garantendo a tutti l’imbarco, sono rimasto francamente impressionato. Anche nel volo di ritorno mi è sembrato di toccare con le dita l’umanità del nostro contingente e del personale di servizio: i bambini hanno trovato chi li ha coccolati, in qualche modo, facendoli giocare nello spazio ristretto della cabina.

 

Tu eri sullaereo che al momento del decollo è stato attaccato…

 

Sì, una collega era addirittura accanto alla giovane pilota quando è scattato l’allarme. La reazione, come giornali e Tv hanno riferito, non poteva essere più lucida. Certo, non possiamo confermare che di attentato vero e proprio si sia trattato, vista la prudenza dei nostri servizi di informazione; ma il modo con il quale è stata approntata la manovra difensiva, appena staccati da terra, dimostra l’elevato grado di professionalità di chi stava ai comandi del C-130, una “macchina volante” sofisticatissima.

 

Abbiamo riportato a casa circa 5000 persone. E abbiamo fatto tutto con ordine, nel rispetto del cronopragramma. Che possiamo dire?

 

Che sono o siamo stati bravi. Gli italiani, va detto, meritano un elogio: e dovremmo essere orgogliosi, tutti insieme, di quel che s’è fatto a Kabul in queste durissime giornate. Un elogio che non deve trascurare, ovviamente, l’aspetto più angoscioso di un lungo conflitto che termina, nonostante gli auspici e le rassicurazioni, con questo carico di dolore e di tensioni, in un clima di allarme generale.

 

Com’è Kabul in queste ore? Puoi dare una tua testimonianza?

 

Impossibile. Siamo partiti da Roma, abbiamo fatto scalo in Kuwait, siamo arrivati a Kabul e dopo poche ore – a dire il vero interminabili – siamo ripartiti. Ciò che abbiamo registrato, parlando con chi s’accalcava a bordo pista, è la paura diffusa nella capitale. L’elenco dei profughi è cresciuto sicuramente, di ora in ora, perché anche a detta dei Talebani non tutti rientravano nella categoria dei profughi politici. Li abbiamo portati a bordo, tutti quelli che potevamo, volendo parlare “come se” fossi io la voce delle nostre autorità. Anche l’ambasciata ha fatto un lavoro superbo.

 

Eri già stato in Afghanistan?

 

Sì, ci sono stato nel recente passato. È un Paese che nessun esercito può pretendere di assoggettare. Vent’anni fa l’Occidente, solidale con l’America ferita dall’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, mise nel mirino i santuari del terrorismo wahabita operanti in territorio afghano. Oltre allo sradicamento dell’Isis, con l’eliminazione di Bin Laden, non c’era un obiettivo superiore da poter mettere a segno ragionevolmente. Qualcosa si è fatto, andando oltre la soglia minimale, ma una vera azione di “nation building” non è mai stata contemplata e promossa.

 

Il ritiro era dunque inevitabile…

 

L’idea che Biden sia l’autore di una politica improvvisata non rende giustizia della verità. Gli accordi di Doha sono stati voluti da Trump. La stessa amministrazione Obama, tra alti e bassi, aveva in animo di porre termine alla missione militare. Certo, il caos che accompagna questa ritirata indebolisce l’immagine delle forze occidentali. Si poteva fare di più e di meglio? Tutti noi, oggi, lo affermiamo a gran voce. Non dimentichiamo però che l’Afghanistan è un Paese complicato, dove contano le tribù, i piccoli potentati locali, le logiche di clan. Il potere centrale è sulla carta: il capo del governo ricopre una funzione che pare identificarsi, in fin dei conti, con quella di un’autorità municipale. Insomma, gli altri capi delle province lo presentano e lo considerano come il “sindaco di Kabul”, o poco più.

 

E ora, a tuo giudizio, cosa può accadere? È plausibile sperare in una stabilizzazione di questa tormentata regione del mondo? Non ci sono pericoli di nuove guerre?

 

La guardinga e tuttavia concreta disponibilità che Draghi sta raccogliendo attorno alla proposta di un G20 straordinario, dedicato appunto alla crisi afghana, attesta la complessità della situazione e insieme la consapevolezza dei principali leader mondiali di quanto sia necessario individuare un equilibrio adeguato a contenere spinte contrastanti. Cina, Russia, Iran, Turchia, Pakistan sono coinvolte più o meno direttamente nel nuovo processo di stabilizzazione. Ma neppure l’India, e neppure il Vietnam, possono permettersi il lusso di distrarsi. Anzi, non hanno la minima voglia di cadere in questo errore. Non si distrarranno, a mio parere.

 

E lOccidente, in particolare lEuropa? Siamo obbligati a farci da parte, in silenzio, privi di un disegno?

 

Tutt’altro. Avremo sicuramente modo di verificare che il ruolo dell’Europa, in accordo con gli USA, crescerà. Siamo chiamati, ad esempio, a governare una transizione che riguarda anzitutto la politica di accoglienza. Senza l’impegno dell’Europa, in chiave non solo umanitaria, ogni progetto di nuovo assetto locale e sovra-regionale rischia di andare in frantumi rapidamente. È una convinzione che deve spingerci pertanto a riordinare il profilo dell’Unione: a Bruxelles, per questo, ci sarà da lavorare molto nei prossimi mesi.