Tratto dall’Osservatore Romano in edicola oggi a firma di Giulio Albanese

Nella società civile africana sono in molti, oggi, a domandarsi quale possa essere il soggetto discriminante, antropologicamente parlando, capace d’imprimere l’agognato cambiamento, rispetto ai condizionamenti impressi dalla globalizzazione. E la risposta, andando al di là della retorica, è certamente complessa, ma non può prescindere dal ruolo delle donne afro. Come rilevava il sociologo francese Emmanuel Todd in L’enfance du monde (1984), in quasi tutte le società africane esiste una forte componente matrilineare, che può essere temporaneamente repressa sotto l’influenza dell’islam o di altre ideologie, ma che poi finisce sempre per riaffiorare. Ed è proprio lei, la «donna africana — secondo Jacques Giri, africanista di fama internazionale — prima degli uomini, prima della scuola, prima della radio, del cinema o della televisione, che formerà l’Africa di domani».

Occorre, comunque, stigmatizzare i condizionamenti culturali impressi dal colonialismo che hanno generato non pochi fraintendimenti. Infatti, prima che le potenze europee sbarcassero in Africa e sottomettessero le popolazioni autoctone, è stato ampiamente dimostrato che furono numerose le donne afro  capaci di distinguersi per il loro carisma. Basti pensare alla regina Ana de Sousa Nzinga Mbande (1583–1663), meglio nota con il nome  Ana Nzinga, sovrana dei regni Ndongo e Matamba, che difese tenacemente gli interessi del fiero popolo Mbundu, di ceppo bantu, prima negoziando e poi opponendosi al dominio portoghese. Da rilevare che per questo popolo il  rapporto di parentela era computato secondo la discendenza per linea femminile. Nzinga è ancora oggi ricordata in Angola non solo per la sua perspicacia politica, ma anche per le straordinarie doti nella tattica militare.

E cosa dire, in tempi relativamente più recenti,  dell’eroina keniana Mekatilili wa Mwenza dei Mijikenda, vissuta a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento? Questa donna, nata nell’entroterra di Kilifi, fu la prima guerriera a combattere contro i britannici e per questo venne imprigionata in un campo di lavoro nel nord del Paese, dal quale riuscì a fuggire raggiungendo la città costiera di Malindi a piedi e riprendendo l’azione rivoluzionaria.  Per non parlare della regina Lozikeyi Dlodlo, succeduta de facto al marito re Lobegula nel governo del popolo Ndebele verso la fine del 1800. Si oppose tenacemente, sia con la diplomazia, ma anche con la forza militare, all’occupazione delle terre ad opera dei coloni bianchi, i quali, successivamente, crearono l’ex Rhodesia (oggi Zimbabwe). Sulla stessa scia, fu emblematico il ruolo delle donne di Calabar e Owerri che furono le protagoniste della celebre sommossa, ricordata ancora oggi, come “Rivolta delle donne  Aba” che si oppose ai militari della corona britannica nel 1929. Pertinente è l’osservazione di Nanjala Nyabola, autorevole analista politica keniana, secondo cui, nonostante vi siano state nella storia africana figure di questo calibro, nel corso prima del colonialismo e poi successivamente dopo le indipendenze dai regimi coloniali, si è radicata, a livello continentale, «un’idea patriarcale dei ruoli — introdotta dal patriarcato europeo e scambiata per una presunta tradizione africana — che di fatto ha cancellato il ricordo delle donne che hanno ricoperto cariche a livello di leadership».

Ma oggi le cose stanno gradualmente cambiando. Ad esempio, l’elezione della signora Sahle-Work Zewde alla massima carica dello Stato in Etiopia, avvenuta il 25 ottobre dello scorso anno, ha rappresentato un significativo coronamento dell’impegno dell’attuale primo ministro Abiy Ahmed, nel valorizzare le donne del suo Paese. Il fatto stesso che Abiy abbia formato il suo esecutivo per metà proprio con donne, la dice lunga. Diplomatica di lungo corso, la Zewde ricopriva fino al giorno in cui è divenuta presidente la carica di rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite  António Guterres  presso l’Unione africana (Ua).

Attualmente la percentuale delle donne africane negli organismi legislativi dell’Africa subsahariana è attorno al 24 per cento e a livello continentale, il Rwanda ha il più alto numero di donne in parlamento (63,8 per cento dei seggi) e, grazie al ricorso sempre più diffuso al sistema delle quote, nella maggior parte dei Paesi dell’Africa orientale e meridionale le donne rappresentano più del 30 per cento dei parlamentari.  Abituate da sempre a fare i conti con la quotidianità della vita e con la sfida della sopravvivenza, le donne africane hanno compiuto in questi anni notevoli progressi nella vita non solo politica, ma anche economica e culturale a tutti i livelli. Sviluppi significativi hanno innescato una loro maggiore visibilità nella difesa dei diritti, fornendo competenze per sostenere il cambiamento.

Sono proprio loro che, di fronte alle prevaricazioni del potere, hanno difeso le prerogative calpestate dai satrapi di turno, dalla Liberia alla Sierra Leone, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia, dall’Uganda al Sudan. Illuminante, a questo proposito, è il pensiero della scrittrice camerunese Werewere Liking, nel suo libro «La memoria amputata». Con tono gioioso, parla di miriadi di donne «laboriose che fanno girare instancabilmente la ruota del divenire di questo continente, nell’oblio delle loro storie dolorose e infelici». Proprio come fecero, durante la seconda guerra civile sudanese (1983-2005) le donne della Sudan’s Women’s Alliance, della Sudan Women’s Association di Nairobi, della New Sudan Women’s Federation e della Sudan Women’s Voice for Peace, tutte organizzazioni femminili che diedero il loro contributo fattivo al processo di pace, mostrando sicuramente più interesse dei loro mariti per le condizioni di miseria della popolazione civile sudanese stremata dalle violenze. Un impegno che molte di loro hanno proseguito recentemente nei due Sudan, divisi a seguito del referendum del 2011, anche nelle sedi istituzionali sia a Khartoum come anche a Juba. Una cosa è certa: la forza d’impatto delle donne africane si evince anche dai numeri: esse rappresentano il 70 per cento della forza agricola del continente e gestiscono la vendita delle derrate alimentari per l’80 per cento. Le donne, inoltre, da decenni sono protagoniste nella microfinanza, consentendo la nascita di migliaia di piccole imprese. Esse svolgono con sagacia la formazione in tanti ambiti della società civile, come attività di lobbying, ricerca, educazione civica e nei servizi sociali, lottando spesso per includere nelle costituzioni clausole di equità contro ogni genere di discriminazione. E cosa dire del loro contributo nella difesa della salute, soprattutto contro il morbo dell’hiv/Aids e della malaria? Sono loro (molte delle quali religiose cattoliche) che svolgono spesso formazione sanitaria nei villaggi, impegnandosi in prima linea contro le pratiche tradizionali dell’infibulazione e della mutilazione genitale. Allora, anche se è inevitabile che l’Africa continui a sperimentare, chissà per quanto, le difficoltà determinate dalla globalizzazione, l’avvenire del continente è aperto alla speranza. Lo ha cantato a squarciagola nei suoi lunghi anni d’esilio la compianta Miriam Makeba, testimone della sete di libertà del popolo nero sudafricano. E ha continuato a cantarlo fino alla morte, sopraggiunta a Castel Volturno, in Italia il 9 novembre 2008. D’altronde, come recita un proverbio africano: «In Africa se educhi un bimbo educhi un uomo, se educhi una bimba educhi una nazione».