Il commento non deve perdersi nei meandri delle false giustificazioni, né inseguire i tormenti del giovane Di Maio, pronto al rilancio del discorso grillino sull’andare “oltre i poli”. In Umbria si è perso, a conti fatti in maniera pesante. Tuttavia nella disfatta spunta per le forze della maggioranza un paradosso ben preciso, non depressivo, ovvero la necessità di pensare alla stabilizzazione della leadership di Conte. Il governo deve andare avanti, non ci sono alternative. Recriminare sulla scarsa tenuta dell’alleanza giallo-rossa, riprodotta frettolosamente in sede locale, equivale a ignorare le condizioni di partenza di questa campagna elettorale.

Di fronte al crollo di un sistema, senza più il mito della buona amministrazione di sinistra, ogni tentativo di recupero appariva insufficiente. Dopo gli scandali, il Pd è finito sul banco degli imputati. È maturata pertanto una svolta radicale, a ogni costo, per un desiderio di pulizia. Del resto, il distacco di 20 punti percentuali tra la Tesei e Bianconi compendia l’ansia di censura e punizione, invero dominante nell’elettorato. Da qui il trionfo della Lega.

Andare avanti non significa, però, consegnare il governo a una stanca attività di routine. Bisogna capire che una semplice operazione di contenimento, per impedire che Salvini conquisti quei “pieni poteri” da lui richiesti in apertura della crisi di questa estate, è destinata di per sé a rinfocolare la protesta popolare. Solo una frustata di orgoglio, ma di un orgoglio alimentato da una vera politica di risanamento e di progresso, consente di guardare al futuro con un carico sufficiente di speranza. Altrimenti, immersi nella palude dell’autoinganno che rende vivi a dispetto dell’evidenza, i protagonisti del non-governo certificheranno il loro fallimento.

Il Pd scopre adesso quanto pesi il fardello del suo mancato appuntamento con la promessa di novità lanciata nel 2007. Che servisse mettere insieme quel che di buono residuava dei grandi partiti popolari – in primis PCI e DC – per arrivare a prendere poco più del 20 per cento in Umbria, mai nessuno lo avrebbe pensato e tanto meno dichiarato. Invece questa è la cruda realtà. Di fatto si tratta di un declino a stento camuffato, che nasce dal presupposto di una sinistra autarchica, fiduciosa nella rigenerazione del suo dna, abusivamente contratta nella gestione di un partito che si voleva aperto e plurale, all’incrocio tra l’idea liberal-laburista della “sinistra di centro” e quella democratico-popolare del “centro a sinistra”, ma di fatto riconnesso irrimediabilmente a una formula di mera evoluzione intra-socialista.

Dall’Umbria sale dunque un vento che spazza via l’illusione di un riformismo senza autentici riformisti, senza cioè una classe dirigente capace compiere un atto di sereno discernimento del passato, magari ripartendo da lontano e impegnandosi a riconoscere, ad esempio, che De Gasperi aveva ragione e Togliatti torto. Il futuro non è una svirgolata nell’ignoto, con l’ambigua leggerezza del fare senza coscienza e senza memoria. Una forza politica in grado di unire la sinistra democratica e il centro progressista resta una necessità per la sana dialettica democratica, come forte e credibile baluardo contro la destra sovranista di Salvini e Meloni (Berlusconi è ormai una comparsa). Questa forza rinasce dalla dissoluzione e ricostruzione del quadro attuale. È più probabile che assuma le vesti di una nuova coalizione, ma non è escluso che possa essere, sulle orme del Pd o sulla base di una sua reale trasformazione, partito organizzato alla stregua di una coalizione.

In ambedue i casi, se non vogliamo morire sovranisti, ad imporsi chiaramente è l’urgenza politica di una discussione a tutto tondo. Serena e coraggiosa.