Se vince Zingaretti, perde il Pd

Qual è, ad esempio, il tratto distintivo della candidatura - unica al momento - di Nicola Zingaretti?

I sondaggi rifilano amarezze all’uomo più potente d’Italia fino al dicembre del 2016. Sono impietosi. Renzi scivola inesorabilmente verso il basso nel gradimento degli italiani. Aveva il Paese in mano, ora deve trovare un nuovo “apriti sesamo” per tentare la riconquista della fiducia e della stima pubblica. La politica non è  un amabile gioco di società, ma vive di questi dolorosi cambiamenti di scena.

Eppure…Sì, è vero, Renzi sta alle corde, eppure combatte. Non si rassegna. È il Renzi di prima, aspro e suadente, duro e simpatico, di una simpatia odiosa ma efficace. Combatte con la determinazione di chi sa dove andare e cosa fare. Al suo Pd indica la strada dell’opposizione senza tentennamenti, soprattutto senza retropendieri benevoli verso i Cinque Stelle. Ha una linea chiara a dispetto di quanti vorrebbero, con scarsa chiarezza di linea politica, strappargli di mano il controllo del partito. Per questo si colloca nel congresso come punto di riferimento ancora ineludibile e forte.

Ora, quanto più Renzi dimostra di saper rinsaldare la sua posizione politica, tanto più gli antagonisti si perdono nei garbugli del dire e non dire, senza una proposta identificabile facilmente. Qual è, ad esempio, il tratto distintivo della candidatura – unica al momento – di Nicola Zingaretti? Si fatica a dirlo. Ciò che si capisce è nascosto nell’ambiguità. Poiché ondeggia, senza prendere impegni sulla scelta anti-grillina, si dovrebbe desumere – per quel che lo riguarda –  il favore accordato a un possibile abbraccio con i grillini. La ricetta zingarettiana dovrebbe consistere pertanto nella “educazione dei barbari”, ovvero nella riconduzione del mondo grillino, dopo l’auspicata rottura con la Lega, nell’ambito di una cultura e di una prassi di tipo democratico-progressista.

È evidente che questa sommaria strategia possa suscitare attrazione nei settori più legati al mito di una sinistra che di Gramsci conserva la suggestione dell’egemonia. Ma come si fa a costruire un ambizioso disegno gramsciano quando la linea di una ipotetica egemonia si contrae nel silenzio sulle questioni salienti, quelle che dovrebbero qualificare la trasformazione dei barbari in alleati potenziali? Qui si arresta il discorso di Zingaretti e qui precipita la credibilità della sua candidatura. Non perché Zingaretti non ne abbia, di credibilità: passa, infatti, per un amministratore prudente e un capocorrente abile, capace di sfruttare la manovra giusta al momento giusto. Non è poco. Ma non è nemmeno quello che serve, come minimo, a un partito bisognoso di riconciliarsi con una seria funzione equilibratrice nell’Italia di oggi, malamente sedotta dal plebeismo di governo.

In definitiva, se vince Zingaretti perde inesorabilmente il Pd.