Comunque si valutino le sue convulse fasi finali, la vicenda della Sea Watch evidenzia una frattura tra Morale e Legge.
Nell’idea di democrazia liberale ancorata al rispetto preminente dei diritti della persona (quella che nella recente intervista al Finacial Times il Presidente Putin ha definito come ormai fallita), la cultura europea aveva composto questa antinomia e ci aveva indotti a pensare che Morale e Legge potessero abitare uno spazio comune, nel rispetto delle reciproche essenziali dimensioni. Non sempre coincidenti, ma convergenti.
La (buona) Politica, con la sua missione di dialogo e di mediazione, ha guidato e amministrato questo fecondo terreno comune.
La vicenda Sea Watch di questi giorni (non l’unica, peraltro) sembra invece riportarci indietro nella storia.

Ha ragione la Capitana Carola quando afferma di agire in nome della Morale oppure ha ragione il Capitano Salvini quando afferma di agire in nome della Legge?
Nello scontro – così posto – tra Capitani, la (buona) Politica scompare, mentre la tifoseria prende il sopravvento.
Vorrei essere chiaro: se questa è l’alternativa, scelgo comunque e senza dubbio la “Capitana” e non il “Capitano”.
Tuttavia, la gestione di un fenomeno epocale e strutturale come quello delle migrazioni non può essere interamente scaricato sulle spalle di qualche “eroe” (oltre che dei tanti volontari – che Dio li benedica – pur meno noti alle cronache, ma artefici di una capillare, operosa e discreta rete di solidarietà diffusa).

E neppure – per l’altro verso – può essere posta sulle spalle degli apparati di Pubblica Sicurezza, chiamati ad applicare Leggi “manifesto” sempre più ispirate alla coltivazione della paura più che alla vera sicurezza.
La radicalizzazione che dilaga nella pubblica opinione, in primis sui social – col suo carico di violenza e con le sue ricadute di incattivimento generale dei rapporti sociali – non promette nulla di buono, come la Storia dovrebbe insegnare.
Ritengo meritoria la testimonianza di alcuni parlamentari del centro sinistra nei giorni scorsi a Lampedusa e condivido totalmente le tante prese di posizione di persone e associazioni che hanno voluto dire una parola chiara di “resistente” solidarietà, in controtendenza all’aria che tira.

Significa che una parte della società non intende cedere il cervello all’ammasso; si ribella a questa deriva di inumanità e di cinismo; non ha dimenticato le pagine più buie della storia, scritte – consapevolmente o meno – con lo stesso inchiostro velenoso tornato oggi, pare, di gran moda.
Tutto ciò, però, è la base Morale (imprescindibile), non è ancora una “Politica”.
Occorrono una “narrazione” nuova ed una proposta chiara e complessiva di “governo” (pur dall’opposizione) del fenomeno migratorio.
Ciò che ancora manca è un “Manifesto Culturale e Politico” che affronti in maniera razionale, rigorosa e con linguaggio socialmente comprensibile questa sfida epocale, in tutti i suoi aspetti.

Dalla gestione delle emergenze attraverso lo strumento pianificato e sicuro dei corridoi umanitari, alla politica sistematica di integrazione (con il necessario impegno anche educativo in tema di diritti ma anche di doveri degli immigrati e con una grande attenzione – oggi totalmente assente – al tema delle seconde e terze generazioni); dalle misure efficaci e generalizzate di impiego dei richiedenti asilo in attività di utilità sociale per le comunità che li accolgono, alla riapertura delle procedure per le quote di ingresso programmato di stranieri a fini lavorativi (bloccate da anni e richieste a gran voce da molti imprenditori, che magari votano Lega ma poi si lamentano che le loro attività non si possono svolgere senza lavoratori stranieri); dalla rivendicazione di misure “certe” di sanzione – rimpatrio compreso – per chi viola le nostre regole (chi dovrebbe garantirle? L’opposizione oppure il Ministro dell’Interno in carica ormai da più di un anno?), alla informazione capillare sulla vera dimensione reale del fenomeno migratorio in Italia (che tutti gli istituti demoscopici affermano essere distorta e oggetto di percezioni lontanissime dalla realtà).
Tocca alle culture democratiche recuperare una prospettiva credibile e convincente su questo terreno.

Diversamente, la pur nobile e moralmente obbligata testimonianza valoriale non sarà certo sufficiente a sottrarre i “penultimi” (e quanti temono di diventarlo) dalla trappola della paura (e dell’odio alimentato ad arte) verso gli “ultimi” di turno.