SENGHOR E LA SFIDA DEL METICCIATO. DON ALBANESE RICORDA SULL’OSSERVATORE ROMANO LO STATISTA SENEGALESE.

Come ha pertinentemente rilevato il professor Andrea Riccardi, «Senghor rappresenta la cultura meticcia tra Africa ed Europa: una “art nègre”, come diceva, in lingua francese. La sua grande opera letteraria è un meticciato di culture e sensibilità».

 

Il fenomeno della globalizzazione ha messo in evidenza l’esigenza di promuovere il multiculturalismo. Per dirla con le parole di monsignor Barthélemy Adoukonou, segretario emerito dell’allora Pontificio Consiglio della Cultura (oggi Dicastero per la Cultura e l’Educazione), di nazionalità beninese: «Non basta, anzi non è possibile coesistere nella semplice autoaffermazione della propria identità culturale. Non possiamo esistere se non nel dialogo con gli altri. L’interculturalità è un obbligo etico del nostro tempo e concepiamo la Chiesa come una grazia, una forza divina che aiuta il mondo a ricercare l’etica umana all’epoca della globalizzazione».

 

Questo indirizzo ha trovato nella persona di Léopold Sédar Senghor uno straordinario interprete. Nato a Joal, in Senegal, nel 1906, dopo aver conseguito la libera docenza universitaria in Francia, insegnò per vari anni nel Paese transalpino; successivamente fu deputato per il Senegal alla costituente francese (1945-46), quindi all’Assemblea nazionale francese (1946-58). Eletto presidente del Senegal nel settembre del 1960, mantenne la carica per vent’anni. Membro associato straniero dell’Institut de France, nel 1983 fu il primo autore africano a essere eletto all’Académie Française. Trascorse gli ultimi anni di vita in Normandia dove si spense nel 2001 e da allora i suoi resti mortali riposano nel cimitero di Bel Air a Dakar.

Come ha pertinentemente rilevato il professor Andrea Riccardi, «Senghor rappresenta la cultura meticcia tra Africa ed Europa: una “art nègre”, come diceva, in lingua francese. La sua grande opera letteraria è un meticciato di culture e sensibilità». Se da una parte è vero che lottò contro il colonialismo e si batté tenacemente per l’indipendenza del suo Paese, fu anche un acceso sostenitore del legame che stringeva i Paesi africani alla Francia. Non a caso nel 1958, Senghor diede vita all’Union progressiste sénégalaise, alla testa della quale cercò di impedire che l’Africa occidentale francese si sminuzzasse in tante e deboli compagini statali indipendenti. Comunque, si considerò sempre un patriota tutto d’un pezzo che difese i valori afro, contrastando in modo perspicace la matrice più perniciosa del colonialismo, quella culturale. Ma al contempo comprese la necessità di andare al di là delle pastoie identitarie fini a se stesse, ricercando l’incontro con l’alterità, nella fattispecie la cultura dei suoi ex colonizzatori. E questo è un aspetto del suo pensiero sul quale vale la pena riflettere, ben espresso, nel contesto di un lungo e faticoso cammino di ricerca, in molte delle sue opere: dalla Anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française (1948) a la Négritude et humanisme (1964); dalla Négritude et civilisation de l’universel (1977) a Le dialogue descultures(1993).

Da una parte per lui la négritude (una scuola di pensiero che condivise con altri intellettuali del calibro dell’antillese Aimé Césaire), indicava una via di salvezza, poiché l’Africa aveva preservato l’essenza di un umanesimo ormai abbandonato dall’Occidente, profondamente segnato da sconvolgimenti tecnologici e soprattutto impegnato a «far piombare l’Africa nel razionalismo materialista che inonda gran parte dell’umanità. In nome della modernità, si spinge l’Africano a far tabula rasa delle sue tradizioni, a rinunciare alla sua educazione secondo i costumi propri, alla sua visione del mondo, al suo passato, alla sua filosofia, alla sua spiritualità». Senghor dunque imputava al colonialismo di aver misconosciuto la civiltà africana, per imporre una propria logica civilizzatrice, con l’intento di sfruttare le risorse del continente. Ma con il passare degli anni, soprattutto a seguito delle vicissitudini sofferte durante la Seconda guerra mondiale, Senghor avvertì la necessità di superare la concezione originaria di una négritude respingente, per dedicarsi alla costruzione di una négritude finalizzata all’edificazione di un umanesimo integrale ed universale.

Pur criticando l’approccio invasivo dei dominatori e le contraddizioni della politica francese in Africa, non lesinò la propria stima personale per i valori della Francia: «Sì, Signore, perdona la Francia che dice bene quale sia la via destra e cammina per sentieri obliqui…». Cattolico, nato peraltro in un Paese a stragrande maggioranza islamico, Senghor rivendicò la centralità della sfera valoriale della cosiddetta négritude che riassumeva i valori afro, anzi, nel suo lessico «negri», senza però scadere nell’identitarismo.

A questo proposito è illuminante una recente pubblicazione di Souleymane Bachir Diagne, filosofo senegalese dal titolo Léopold Sédar Senghor: l’art africaine comme philosophie (2007). Diagne rilancia la tesi senghoriana ovvero il contributo di ciascuna cultura per la «prossima civiltà dell’universale». L’invito che Senghor dunque rivolgeva al mondo mediante l’elaborazione del concetto di négritude era quello di aprire ogni cultura all’universale. In altre parole, come spiega Riccardi: «Per Senghor, non basta conservare i valori africani in un mondo tradizionale che rischia di scomparire; bisogna inserirli nel flusso della cultura contemporanea».

Ecco che allora, partendo dal presupposto che ogni essere umano si confronta con diverse storie e culture, avvertì l’esigenza, come egli stesso dichiarò, di passare «dal meticciato biologico (perché in effetti, in considerazione della mobilità umana che ha segnato il cammino dell’homo sapiens dall’Africa in giro per il mondo, siamo tutti creoli n.d.r.) a quello culturale». Senghor si rivelò uno straordinario poeta e scrittore di lingua francese, che ebbe il merito di coniugare il patrimonio linguistico e culturale transalpino con i valori e le tradizioni africane. La parola chiave della sua ermeneutica è il «métissage», ovvero in italiano il metissaggio, che per Senghor è «l’equilibrio del mondo». Naturalmente, questo modo di pensare e concepire l’antropologia su scala planetaria, con la determinazione di «incontrarsi (africani ed europei) all’appuntamento del “dare” e del “ricevere”, avendo un destino comune», trovò non poche resistenze.

Alcuni intellettuali africani criticarono Senghor, accusandolo di aver mistificato la realtà culturale africana, subordinandola alla visione imperiale dei colonizzatori. In realtà la sua figura, non solo si rivela oggi originale e creativa, ma è davvero profetica in riferimento alle istanze di fraternità universale ben illustrate e motivate da Papa Francesco nella sua Enciclica Fratelli tutti. In effetti, l’obiettivo che Senghor ha poi maturato con chiarezza è che i valori delle civiltà africane, delle loro radici e delle loro origini rappresentavano il presupposto ideale del meticciato culturale: esso avrebbe dovuto radicarsi nei valori della négritude, per aprirsi, poi, agli apporti delle altre civiltà planetarie. Per Emmanuel Mounier, direttore della rivista cattolica «Esprit» e pioniere nel criticare le attività coloniali francesi in Africa, Senghor è l’interprete per eccellenza di una nuova civiltà euroafricana: «Lei è africano nella sua viva carne», gli scrive in un carteggio «Lei è europeo per un’altra parte, per la lingua che ha appreso e che La informa… La civiltà euroafricana, di cui siete i pionieri, deve ancora trovare le sue strutture». Lungi da ogni retorica, la comprensione del tema migratorio, oggi di grande attualità in riferimento alle relazioni tra Europa e Africa, non può prescindere dall’approccio culturale di cui Senghor fu un illuminato precursore e fautore.

FONTE: L’Osservatore Romano – 12 agosto 2022