L’autore ripropone il testo da lui elaborato in occasione del convegno promosso da Gerardo Bianco e Bartolo Ciccardini il 24 luglio 2013 in occasione del settantesimo anniversario del Codice di Camaldoli.

Per quanti tra di noi che hanno vissuto solo la storia del dopoguerra attraversata dai diversi momenti della ricostruzione, dello sviluppo impetuoso, della crisi degli anni settanta, della spinta sfrenata del liberismo reaganiano e thatheriano fino alla attuale fase di declino, rileggere la storia del Codice di Camaldoli significa immergersi nella grandezza di quegli uomini, protagonisti del futuro del Paese. Non si può non restare ammirati dalla forza di quelle idee e soprattutto verso colui che cresciuto alla scuola laica, ma così naturaliter christiana fu il motore della fatica. Colui che analizzava le scelte di quella tela insieme moderata e radicata nella migliore tradizione sociologica “nostra” come scrisse Giulio Andreotti. Quell’uomo era Sergio Paronetto, scomparso nel 1945. La sua è stata una storia breve ma intensa, piena di significato.

I partecipanti al piccolo cenacolo di via Reno erano affascinati dalla rivendicazione del primato della persona umana e del diritto di famiglia in antitesi con lo stato onnipresente e soffocante; protesi verso la ricerca di un equilibrio tra validità economica degli schemi e tutela della dimensione di una società a misura d’uomo.

Forse è il momento di riproporre ai giovani quel modello.

Ma non abbiamo ancora un Montini in grado di costringere i cattolici a tessere la tela di Camaldoli che orienterà i costituenti.

Sergio Paronetto non è stato un costituente, ma è come se lo fosse stato, tanta è stata la forza della sua ispirazione e l’influenza esercitata nei camaldolesi e nei costituenti.

Il codice è il momento alto di un progetto di società coerente e funzionante. Dà coerenza ai motivi tecnocratici, sociali e anticapitalistici.

Abbiamo un debito verso gli estensori del codice e verso Paronetto in particolare perché hanno saputo fare le scelte giuste idonee a unire i drivers dello sviluppo, facendo uscire il Paese dalla miseria.

Quella è una pagina di storia di cui i democristiani devono essere orgogliosi.

E fanno bene Gerardo Bianco e Bartolo Ciccardini a dare il significato storico che la commemorazione merita, legandola coerentemente a una prospettiva di riaggregazione culturale e politica.

“Paronetto trovò l’equilibrio tra informato realismo e ispirazioni fondamentali aggiornando e razionalizzando Malines” scrisse Andreotti in De Gasperi visto da vicino.

Paronetto è stato capace di coniugare il nittismo antiburocratico, la sensibilità ai valori della solidarietà, la democrazia economica, l’antimonopolismo radicale.

Per Paronetto il mercato andava aiutato con i controlli, con le indagini con le restrizioni. Per l’economia reale i mercati vanno corretti, sostenuti rilanciati mentre i mercati finanziari vanno governati con regolamenti e tetti. V’era nel suo pensiero modernità nella dimensione della gestione economica dei beni pubblici. Era un economista di impresa e il sistema Paronetto mette insieme politica economica e Welfare, economia delle imprese e investimenti sociali, processo di accumulazione e dignità umana.

Era competente e preparato. “Continua a consigliarmi con la tua illuminazioni dalla realtà” è l’esortazione di De Gasperi in una lettera.

Abbiamo un debito verso un personaggio che ha coniugato modernità e internazionalizzazione dell’approdo alla economia, alla industria, alla finanza.

Aveva una visione progettuale che puntava alla economia produttiva una figura riservata che aveva affinità con Guido Carli.

Vorrei concludere con il ricordo di una lettera che scrive Menichella allora direttore generale dell’Iri, poi straordinario governatore della Banca di Italia a Vittorino Veronese il 24 marzo 1955 per ricordarne la figura a dieci anni dalla scomparsa. Dopo avere sottolineato la sua “capacità di giudizio sereno ed equilibrato che in Paronetto era il frutto di una continua, assillante, tormentosa azione di appello alla sua coscienza, profondamente religiosa e vigile in ogni momento della sua vita” Menichella ricorda un episodio che då il segno della modestia di Paronetto e la sua sinceritá.

“Alla chiusura dell’anno 1939, provvedendo a migliorare gli stipendi dei funzionari, apportai un aumento anche al Suo. Mi trattenni dal fare di più come Egli meritava, solo per timore di turbare la sua modestia, sicchè grande fu la mia meraviglia allorquando mi si presentò per indurimi a limitare l’aumento che Gli avevo concesso, minimizzando il suo lavoro e citando esempi di funzionari, estranei al nostro ambiente che, a suo dire, valevano più di Lui e avevano stipendi minori. Naturalmente non lo accontentai. Ne rimase male e me lo disse. Ne fu turbato. Lo scrisse nelle carte ritrovate dopo la morte”.

Riteneva folle la cifra fissata. Questa decisione gli faceva paura. Fino al punto di dire “non c’è un profondo e perverso errore in tutto ciò? Una ingiustizia, una complicitá nostra?”.

In questa lettera c’è una lezione di etica e di moralità, un insegnamento di modestia, rispetto alla deriva finanzaria “stockoptionista” e “shortermista” alla creazione di valore artificiale, alle fusioni e acquisizioni di breve periodo dei tempi nostri che hanno perdere di vista il ciclo lungo della economia sia rispetto agli investimenti che al lavoro.

Va anche ricordata l’intelligente mediazione di Paronetto che, attraverso opportune modifiche ai capitoli sulla educazione e sulla famiglia, permise di riguadagnare il consenso di Capograssi, che non si estese fino al punto di figurare tra i redattori dell’opera, ma solo come consulente e collaboratore, perchè non favorevole all’idea di un “distillato della sapienza catto-iitalianamente”.

E sul tema del lavoro elaborato dalla triade di Morbegno – Saraceno, Vanoni e Paronetto – la sua criticitá e prudenza verso la participazione operaia alla gestione dell’azienda, definendola “illusoria meta la cui conquista lascerá insoddisfatti e delusi i lavoratori per la sua inconsistenza economica e morale” e nella peggiore “espediente accettato o propugnato da taluni datori di lavoro o da loro più o meno consapevoli interpreti per eludere altre più vere e sostanziali rivendicazioni dei lavoratori o per assicurarsi con mezzi politici la posizione di privilegio” .

Una posizione diversa da quella di Fanfani, più articolata rispetto a Gonella, Ferrari Aggradi e Taviani o di Malvestiti.

V’era in sostanza una distinzione tra partecipazione agli utili e il tema più complesso della partecipazione intesa come democrazia partecipativa e del solidarismo partecipatativo nella economia, nell’artigianato, nelle pmi, nella cooperazione.

Certo oggi sono diversi i tempi, la storia, gli uomini, le culture, di quando di affermava quel sogno utopico. C’era però in quella “terza via” la indicazione per garantire giustizia sociale per tutti attraverso il ruolo regolatore e perequativo dello Stato.

È stato detto che punto di forza fu quello della autonomia del gruppo di Camaldoli dalla politica partitica, ma essi stessi furono guida!

È forse il momento di riscoprire l’insegnamento sturziano, di riprendere coraggio, a partire “dal programma politico che non si inventa, ma si vive e per viverlo si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrere le attuazioni, determinare e soluzioni, nel complesso ritmo delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni”.

Far rivivere il Codice di Camaldoli oggi è un sogno o piuttosto l’itinerario di un cammino da riprendere senza indugi?