Le evidenze più immediate e dolorose della pandemia Covid-19 riguardano ovviamente gli aspetti sanitari, con conseguenze drammatiche, a cominciare dal contagio rapidissimo e diffuso, dal numero altissimo degli infettati da virus, da quello altrettanto devastante dei decessi.

Eppure di messaggi autorevoli ne erano stati lanciati dalla scienza e dalle istituzioni.

Nel suo libro “Spillover” del 2013 David Quammen aveva anticipato fin nei minimi dettagli ciò che sta accadendo ora con il COVID-19: alla pubblicazione del libro gli fu dato del mentecatto. 

Rapidità del contagio, pervasività planetaria, nessuna esclusione di target o contesti sociali, nessun angolo del pianeta immune dalla pandemia: questi sono i macro-fenomeni più dirompenti.

Anche la scuola sta pagando un prezzo altissimo gli alunni per un lungo periodo sono improvvisamente diventati soprattutto bambini, ragazzi, adolescenti che vivono una sorta di sequestro domestico necessario ma frustrante.

In ogni istituzione scolastica è partita la corsa ad attrezzarsi, a rendersi disponibili per non far mancare ai ragazzi un aggancio con i docenti, il programma, le attività.

Con molti se e molti ma: ci sono difficoltà oggettive e modi soggettivi e diversi di organizzare questi contatti.

Ma non si può dire che gli insegnanti se ne siano stati nella maggior parte dei casi, con le mani in mano mentre l’apparato amministrativo-gerarchico organizzativo a livello istituzionale – dal Ministero alle singole dirigenze scolastiche – si è mobilitato per attivare procedure alternative alle classiche lezioni frontali, alla didattica in presenza, ai libri, ai laboratori, a tutto quel fervore che anima il rapporto fantastico insegnamento/apprendimento che si basa sulla oggettività delle materie, delle discipline, delle classi riunite nelle aule ma soprattutto fa leva sui rapporti interpersonali- se è vero come è vero quanto affermava Cesare Scurati della scuola: “l’essere un luogo di lavoro dove si intrecciano relazioni umane”.

Come in tutti gli altri contesti di vita attraversati dal profondo, drammatico disagio dell’epidemia e della sofferenza , anche la scuola ha saputo mantenere vivi in larga e sorprendente misura il pathos del volontariato, il senso del dovere di un compito da portare a termine, il contatto con lo specialissimo mondo dei bambini e dei ragazzi, anche attraverso le loro famiglie.

Su questo c’è tempo per recuperare: ma ciò che andava e va privilegiato è soprattutto l’aspetto relazionale ed empatico del rapporto, il contesto scolastico che si avvicina a quello domestico- possibilmente con discrezione e non in modo invasivo- rispettando le intimità familiari, andando incontro alle preoccupazioni dei genitori, tenendo i bambini e i ragazzi impegnati in attività didattiche ma soprattutto facendo capire loro (nella precipua, commisurata all’età e soggettiva ricettività psicologica ed emotiva del fenomeno pandemico in atto) che non sono stati abbandonati, che i loro insegnanti si fanno vedere in videoconferenza (laddove possibile, con lo smartphone e il tablet , o con una semplice telefonata che con sono stati lasciati soli.

In fondo nell’esperienza storica della didattica a distanza il sistema scolastico italiano poteva contare su un precedente illustre ma isolato, una vera eccellenza poi imitata dal resto dei sistemi scolastici europei: quello dell’istruzione domiciliare a favore di alunni a casa per malattia, convalescenza post-ospedaliera, infortunio ecc. . In quel caso veniva attivata una linea ADSL a domicilio che consentiva agli alunni di rimanere in contatto con la classe, quasi in situazione di presenza differita.

Inoltre c’erano i docenti che si recavano a casa del bambino o del ragazzo assente da scuola per completare l’intervento della didattica individualizzata domiciliare. 

Con la DAD ci si è trovati di fronte ad una fattispecie del tutto nuova e imprevista, un qualcosa “tutto da inventare”.

Gli insegnanti hanno dovuto offrire la propria disponibilità di mezzi e dotazioni da casa propria e gli alunni hanno contato su questa “offerta” e si sono avvalsi, laddove è stato possibile, dell’aiuto casalingo delle famiglie.

Si può affermare che i migliori risultati sono stati realizzati laddove gli insegnanti hanno agito con creatività, spirito di iniziativa, prevalenza dell’approccio relazionale ed umanitario, rispetto ad evidenze di super-controllo da parte di alcuni dirigenti scolastici forse più preoccupati di dare risalto ad un accreditamento e a un riconoscimento sociale delle iniziative esperite o piuttosto ad una certa enfasi degli aspetti documentaristici e burocratici, come se si potesse restituire sul registro di classe o nei verbali di riunioni in realtà virtuali le puntualizzazioni e le precisioni che di solito si riscontrano nella consueta prassi organizzativa in situazione.

L’attesa delle famiglie riguardava e riguarda diversi aspetti che sono venuti improvvisamente a mancare con la chiusura degli edifici scolastici; un dato oggettivo e incontrovertibile ma certamente non imputabile a nessuno. Ma più di tutti sembra abbia prevalso la sensazione avvertita dalle due parti coinvolte – dirigenti/docenti da un lato e famiglie/alunni dall’altro che il contatto umano, anche se mediato dalle tecnologie e  interrotto dalle distanze, riesce a trasmettere sensazioni che precedono qualsivoglia risultato docimologico: il non sentirsi soli, il poter stabilire relazioni empatiche, il cercare motivazioni e profondere impegno per imparare che in ogni contesto esistenziale – In primis quello educativo – ciò che conta è sapere e capire che l’umanità prevale, sempre.

A gennaio si riparte con la novità dei vaccini ma ad oggi non è certo che la virulenza della fase 2 e l’incombenza della fase 3 consentiranno di ricominciare con le scuole aperte dopo la Befana.

Ogni programmazione ha tempi brevi, soprattutto se non si ha il coraggio di assumere decisioni senza deroghe e ripensamenti. Si fa presto a dire riapriamo ma la DAD si sta perfezionando: non è ciò che si vorrebbe in primis ma è pur sempre un’alternativa al nulla.