Sembra essere una liturgia che si ripete annualmente quella che scatena la mente di Vittorio Feltri nel periodo che va dal 25 aprile al 1° maggio sulle colonne di “Libero”.

Per la verità i suoi editoriali poco oculati non sono una novità nel panorama del giornalismo italiano che conta; spesso e volentieri il direttore editoriale di “Libero” cavalca una protesta sociale per fini poco nobili legati alla sua personale visione del mondo e della vita, nell’ottica di quei liberal chic asserviti ad un sistema economico-politico-finanziario che non solo ha fatto ormai il suo tempo, ma che rappresenta il maggior responsabile della crisi anche sanitaria in atto.

Evidentemente, non si può essere d’accordo con chi vorrebbe relegare in soffitta come un vecchio libro non più attuale le ricorrenze del 25 aprile e del 1° maggio.

La Festa della Liberazione, lungi dall’essere una ricorrenza ormai fuori moda, rappresenta ancora oggi non solo una memoria storica da conservare gelosamente e tramandarla alle nuove generazioni, bensì anche quella civica presa di coscienza secondo la quale i valori della democrazia e della libertà sono doni preziosi che vanno salvaguardati e difesi giorno per giorno per una pacifica convivenza del genere umano.

Essere antifascisti, in altri termini, non vuol dire né lottare contro fantasmi che non esistono più, né tanto meno riattualizzare quella visione del mondo socialcomunista che Feltri evoca, insieme a tutto lo stuolo politico di centrodestra, come modello superato storicamente dall’affermarsi dell’economia di mercato, del liberismo economico e del capitalismo come motori del progresso e dello sviluppo.

Se guardiamo e riflettiamo sull’attuale crisi, sulle nuove povertà, sul saccheggio della natura e dell’ambiente per fini prettamente di profitto economico, su un sentimento di odio sfrenato che alberga nelle menti di certa classe politica e di certa “cultura”, allora il 25 aprile riassume uno straordinario esempio di civiltà dei popoli.

Quella civiltà che l’editorialista di “Libero” vorrebbe archiviare, ma soprattutto eliminare dalle menti della stragrande maggioranza dei cittadini onesti che vivono con dignità, ma spesso anche con difficoltà in questo tempo, del loro onesto lavoro.

Vi è, tuttavia, nella Festa della Liberazione anche tutto un filone politico-culturale che dalla barbarie nazi-fascista ha tratto quella necessità di coscienza e quindi di comportamenti pratici che, partendo da motivazioni religiose, innerva la tradizione di quei Ribelli per Amore che nella primavera del 1944 ispirano la famosa Preghiera del Ribelle di Teresio Olivelli.

Si tratta di quell’amore evangelico che nella lotta politica del secolo scorso portano Benigno Zaccagnini a sostenere che “l’antifascismo non è soltanto la passione giovanile che ci rese ribelli per amore (secondo la definizione di Olivelli), ma il rifiuto permanente, e quindi sempre attuale, di una concezione elitaria ed arbitraria della politica e del potere che devono sempre contrastati ovunque serpeggino e dovunque e comunque si travestano.”

Si può essere ancora oggi ribelli per amore? Ribelli verso un modello di società che guarda al diverso in senso spregiativo; ribelli verso un’economia che guarda all’uomo come mezzo di sfruttamento per fini di arricchimento personale; ribelli verso un sistema che riduce la persona a schiavo nella ricerca di un onesto lavoro; ribelli perché vogliamo ridare a questa umanità martoriata un senso ed un fine nella consapevolezza di dover agire politicamente (come diceva Zaccagnini) non per una semplice amministrazione dell’esistente, ma per fare grandi cose.