Sofri e Moro. L’incubo del pregiudizio.

Nella rubrica delle lettere “Il Foglio” pubblicava il 18 giugno una nota (in versione abbreviata) che il direttore de “Il Domani d’Italia” aveva inviato a commento di due articoli di Sofri sul “caso Moro”. Di seguito, per una visione più completa, proponiamo il testo originario della suddetta nota.

Nella rubrica delle lettere Il Fogliopubblicava il 18 giugno una nota (in versione abbreviata) che il direttore de Il Domani dItaliaaveva inviato a commento di due articoli di Sofri sul caso Moro. Di seguito, per una visione più completa, proponiamo il testo originario della suddetta nota.  

Adriano Soffi sulle colonne de Il Foglioha scritto nel giro di due giorni (28 e 29 maggio) quel che di Moro gli sembrava già vero quando nel lontano e reiterato confronto con Sciascia, debitore a sua volta di Pasolini, allegava al profilo delluomo quella definizione di politico meno implicato di tutti, naturalmente scagliata contro il sistema di potere dc. Un discorso, questo, che più non si nutre di contrasti ideologici antichi, ma sconta comunque le insidie di pregiudizi  coltivati per lungo e per largo, in un riverbero di sospetto ineliminabile.

Lanalisi di Sofri scivola lungo un sentiero facile e impervio al tempo stesso, per avvicinare il Moro giovane – non ancora democristiano – al Moro prigioniero delle Br – ormainon più democristiano. Lo fa con stile elegante, sebbene corrivo con una implicita lettura agiografica. Andrebbe detto ad esempio quanto il Moro giovane, e con lui tutta la generazione dei cattolici afascisti, manifestasse al fondo una debolezza di linea – se così possiamo esprimerci in sintesi – rispetto allantifascismo di De Gasperi. Aveva delle ragioni, certo, ma non aveva ragione. Tant’è che proprio grazie a De Gasperi, così netto nella rottura con il regime mussoliniano, di cui aveva patito larbitrio, la Dc è riuscita con pienezza di legittimità a governare il Paese per mezzo secolo.

Veniamo allaltro punto della questione, ovvero al Moro della prigione del popolo. Egli sarebbe morto nel momento in cui i suoi lo hanno disconosciuto, come linvenzione letteraria di Kafka (La metamorfosi) suggerisce di pensare sulla scia della condanna a morte che la famiglia infligge moralmente al povero commesso viaggiatore, ridotto nel giro di una notte a scarafaggio: Ma come può essere Gregorio?, dice la sorella Grete con la premura di mettere fine allo strazio. In lei non c’è più né la pietà, né la speranza.

Ora, invece, nella querelle sullautenticità delle lettere dovrebbe onestamente comprendersi quale tormento abbia guidato coloro che decretarono allepoca la non corrispondenza del Moro prigioniero con il Moro reale, sperando in questa maniera di preservarne intatta la figura pubblica. Dunque, intriso damore intellettuale, il disconoscimento poggiava sulla difesa testarda della sua umanità – umanità di leader politico – contro una metamorfosi ordita e imposta con la violenza.

Tutto questo lascia intravedere quel sospetto che aleggia sulla condotta degli amici di Moro: sarebbero stati loro, gli stessi democristiani, ad averne provocato la morte civile.  E torna Laffaire Moro di Sciascia, con quellimmagine potente che fissa i lineamenti delluomo meno implicatoe perciò “destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni, così da apparire tuttora come la vittima di trame domestiche inconfessate, non lontane da Piazza del Gesù. È voce diffusa anche oggi, purtroppo anche tra certi cultori della memoria di Moro. Ma è vero? Non ne sono convinto. Eppure, anche se fosse vero bisognerebbe infine spiegare perché le Br si siano decise ad uccidere un uomo che sul piano politico era già morto, non solo per il Pci – lo spiegò Pecchioli a Cossiga a ridosso del tragico ritrovamento in Via Caetani – quanto per la stessa Dc.

Perché Moro doveva morire? Il grande mistero sullatto finale delle Br sta qui, almeno sul piano di un ragionamento politico che voglia liberarsi, come Sofri potrebbe invitarci a fare, dallincubo del complottismo insensato e malevolo.