Quando si faceva buio in sala lui si piazzava al centro del palcoscenico su una semplice sedia e cominciava a parlare, rivolgendosi al pubblico, con quella voce roca, inconfondibile: ed era un piacere ascoltarlo, una magia che incantava, coinvolgeva e durava anche oltre il copione. Nella sua carriera aveva portato in scena oltre 240 rappresentazioni diverse ma…”..ogni volta che entriamo in scena è una ‘prima’, deve essere così. Anche perché il pubblico non è sempre quello e ha diverse maniere di esserci e di sentire”.

Aveva iniziato per caso, a 10 anni sostituendo una bambina che interpretava Cosette dei Miserabili, ed era andato avanti tutta la vita, fino a 85 anni: suo grande maestro il Ferravilla che aveva inventato il personaggio che lo rese celebre, il Tecoppa. “I miei genitori erano guitti”: gente di teatro itinerante, e lui aveva calcato i palcoscenici prima del Manzoni di Milano, lanciato da Biraghi fino ad arrivare a Strelher e a Fellini, al teatro dialettale , a quello nazionale, al cinema, alla Tv. Piero Mazzarella è ancora oggi considerato uno dei più grandi attori teatrali che l’Italia abbia avuto, anche se si perfezionò nel teatro dialettale: a Milano e in Lombardia fu sempre considerato un mito insuperabile.

Lo stesso Silvio Berlusconi pare lo considerasse il suo attore preferito. Ma i suoi orizzonti erano distesi, come la sua intelligenza e la sua ineguagliabile capacità di calarsi nella parte. “Io ero molto amico di Federico Fellini e quando recitai con sua moglie – Giulietta Masina – in ‘Eleonora’ con la regia di Silverio Blasi, lui le telefonava dicendole ‘stai vicina a Piero, stai vicina a Piero….’, perché l’amava molto e voleva proteggerla sempre”. Per non lasciare la compagnia che non avrebbe lavorato senza di lui, rinunciò a due parti in ‘Amarcord’ e ‘La voce della luna’, nonostante l’insistenza del grande regista e di Franco Cristaldi. Nella sua lunga carriera aveva vinto “tutti i premi che si potevano vincere”, mi parlò soprattutto del riconoscimento internazionale Luigi Illica, il più prestigioso: “Le dico gli altri quattro che l’hanno vinto oltre a me: Eduardo De Filippo, Salvo Randone, Tino Buazzelli ed Enrico Maria Salerno”.

Il salotto di casa sua era un tripudio di coppe, targhe, diplomi ma lui non fu mai capace- per sua stessa ammissione – di ricavare da quella carriera prestigiosa un vantaggio economico che gli permettesse una vita agiata. “Se fossi stato meno sincero sarei più ricco, invece credo di essere uno degli attori più poveri d’Europa perché non sono mai sceso a compromessi con i potenti”.
“Io alla politica ho sempre detto ‘no, grazie’ e morirò come Cirano, dicendo ‘no, grazie’, sotto una pianta con il naso verso la morte che arriva, come Tecoppa, del resto….”
Quando mancò, il 25 ottobre 2013, aveva ricevuto lo sfratto dalla casa di Segrate ed era in attesa di risposta per usufruire della legge Bacchelli, prevista per gli artisti in condizioni economiche disagiate. Lavorò con colleghi famosi della sua epoca: Gastone Moschin, Giulia Lazzarini, Alberto Sordi, Tino Carraro, Raf Vallone, Gianni Agus, Lino Banfi, Renato Pozzetto, per citarne alcuni. Ma quando – rivolgendomi a lui – lo chiamavo Maestro e poi artista, lui si scherniva: “Vede, più che artisti noi siamo attori. L’artista è uno che prende un pezzo di marmo e uno scalpello e fa il Mosè.

Purtroppo noi attori abbiamo la mania di farci chiamare artisti ma non è vero, non una è questione di umiltà: io sono un popolano e quindi sono orgoglioso e superbo come tutti i popolani, però artista è troppo”. Aveva una visione personale, umile e intimista del suo mestiere, come i veri grandi attori che calcano il palcoscenico. Fui conquistato dalla sua bontà, dalla disponibilità ad aprire il suo cuore ciò che mi dimostrò, ancora una volta (se necessario) che i veri “grandi” sono persone semplici. “Il teatro è un ammalato che ha bisogno continuamente di linfa e questa linfa è la saggezza popolare. Delio Tessa, uno dei più grandi poeti del 900 diceva: ‘Riconosco un solo maestro: il popolo che parla”.

E nessuno come Lui seppe interpretare gli umori popolari, se ne sentiva parte.
Il nostro rapporto di conoscenza fu breve ma intenso: mi sorprendeva spesso con le sue telefonate, informandosi sempre (prima lui di me) della mia salute.
Mi aveva chiesto negli ultimi tempi di scrivere un libro sulla sua vita: era consapevole del fatto che per un uomo di teatro la gente si ricorda di te fino a quando ti vede in scena, voleva lasciare un ricordo al suo “popolo”.

Gli avevo proposto un titolo, che gli era piaciuto perché lo trovava specchio del suo carattere: “Spudoratamente sincero”. Lo iniziai ma mi restano solo poche pagine, non feci in tempo a scriverlo: se ne andò in punta di piedi senza poterci salutare. Ma voglio che resti un ricordo speciale di Lui, ciò che mi rispose quando gli chiesi di lasciare tre insegnamenti ai giovani: “Se dovessi parlare ai giovani direi loro: prima di tutto viene l’onore, poi la rettitudine che vuol dire saper raccontare a se stesso prima di addormentarsi, alla sera, quello che si è combinato durante il giorno potendo dire’ dormi tranquillo perché non hai fatto nulla di cui ti devi vergognare’: pregare vuol dire questo, saper fare l’esame di coscienza. E insieme a tutto questo l’onestà”.