Torino-Roma, il fallimento dei cinque stelle

Questa è la malattia dell’Italia, evidentemente infiacchita e depressa, non la sua medicina.

A Torino la società civile ha intonato la sua protesta per il non governo dei 5 Stelle, abbarbicati al mito della decrescita civile e al ridicolo corollario della inutilità delle grandi opere. A Roma il non governo ha trovato invece il plauso festoso per l’assoluzione di Virginia Raggi, sottoposta a un processo dalle basi fragili e dai risvolti penosi, più che penali, come se il tribunale abbia potuto cancellare, con questa sentenza prevedibile nell’ottica del buon senso, la disastrosa gestione capitolina. Sono due facce della stessa medaglia: in entrambi i casi è andata in scena l’improbabile funzione di governo di un movimento artificioso, comandato da una centrale remota e nascosta, inaspettatamente cresciuto nel consenso degli elettori, fino ad esplodere il 4 marzo.

Cosa giustifichi l’attacco di Grillo e compagni alla stampa – un attacco insulso e grave per la pretesa di regolare a piacimento la libera informazione – non è dato di sapere. Nella fattispecie, a giudizio dei vertici del Movimento,  la Raggi sarebbe stata vittima dell’oltraggio di pennivendoli di regime, solo perché sulle colonne dei giornali sono finite le testimonianze di chi racconta la pochezza politica di una signora, eletta alla massima carica della città, perlopiù teleguidata nei suoi modesti atti di natura amministrativi. Giunta a metà mandato non sappiamo spiegare, neppure con un carico abbondante di generosità, quale disegno il Sindaco – la Sindaca suona proprio male – stia portando avanti per il necessario riscatto della Capitale. È buio fitto.

In realtà, a Torino e a Roma esplode il bubbone della insignificanza di questa strana creatura della Casaleggio Associati, premiata oltremisura da un corpo sociale aggredito dalla paura della globalizzazione. D’altronde, anche l’esperienza di governo rivela, persino con maggiore enfasi, l’inadeguatezza della quadra di ministri, vice-ministri e sottosegretari pentastellati. Di Maio riassume per tutti e per tutto il farraginoso atteggiarsi sul palcoscenico della grande politica. In pochi mesi la pubblica opinione ha registrato il vuoto che circonda l’azione di una spocchiosa e inconcludente consorteria di facinorosi del nulla.

Questa è la malattia dell’Italia, evidentemente infiacchita e depressa, non la sua medicina. È la prova provata di come l’improvvisazione non possa surrogare la fatica e il rigore della politica. Essa costituisce il pericolo più grande proprio perché si ammanta di verità arbitrarie e mutevoli, a seconda delle convenienze, interamente destinate a generare illusioni e a propagare un odio sottile, come che sia deleterio, da cui il Paese non ricava alcunché di positivo e giovevole. Si tratta dunque di reagire, sapendo che la battaglia è per il bene del Paese, ovvero per un suo futuro migliore. Ma senza il ritorno alla politica, e quindi alla sobrietà e alla concretezza nell’esercizio di piccole o grandi responsabilità pubbliche, non è detto che il futuro sia miracolosamente “salvato” da promesse e illusioni di saltimbanchi.

Prima si mandano a casa e meglio è per l’Italia