Il populismo ha demolito la politica. Ora, dopo anni, l’opinione pubblica ritorna ad apprezzare il merito, accantonando le semplificazioni. La qualità della classe dirigente si misura sui contenuti che esprime, sulla progettualità che sprigiona, sulla cultura politica che declina e, in ultimo, sulla rappresentanza sociale di cui è espressione.

Dunque, se dovesse ritornare la “politica dei partiti” – almeno così si spera dopo l’ubriacatura populista, qualunquista, antipolitica e giustizialista del partito di Grillo e di Conte che perdura, purtroppo, da alcuni anni – inesorabilmente dovrebbe essere archiviata definitivamente ed irreversibilmente qualunque sorta di “rottamazione”. Certo, quando si parla di rottamazione, cioè di come liquidare una classe dirigente di partito per poterla sostituire con la propria corrente e la propria cerchia di amici e conoscenti vari, il pensiero corre immediatamente a Renzi. Ma, come tutti ben sappiamo, i campioni indiscussi della liquidazione e della criminalizzazione politica della classe dirigente politica che li hanno preceduti sono stati indiscutibilmente i 5 Stelle. Poi molti altri partiti e movimenti hanno emulato quel malcostume e quella deriva profondamente antidemocratica e squisitamente antipolitica.

Ora, la stagione del populismo grillino dovrebbe arrivare presto al capolinea politico ed elettorale. Anche se la favoletta che tutti insieme, ed improvvisamente, hanno avuto una conversione politica e culturale che li ha portati – come un sol uomo – a rinnegare radicalmente tutto ciò che hanno predicato, urlato, giurato e scritto per svariati lustri non è granchè credibile e neanche troppo seria. Misteri profondi della politica. O meglio, un mistero che è frutto e prodotto del trasformismo politico e dell’opportunismo parlamentare che abbiamo potuto sperimentare dal 2018 in poi. Ma quello che conta rilevare, al di là delle vicende dei 5 Stelle, dei rottamatori vari e di tutti quelli che hanno avuto per anni come unico obiettivo la distruzione delle classi dirigenti del passato, è che il ritorno della politica e dei suoi strumenti principali, cioè i partiti, non può non contemplare la presenza anche e soprattutto di una classe dirigente di qualità. Cioè una classe dirigente preparata, competente, radicata a livello territoriale ed espressiva a livello sociale e culturale. Ovvero, l’esatta alternativa dello spettacolo a cui dobbiamo assistere quotidianamente. 

L’esempio più fresco e più clamoroso? Come il partito populista per eccellenza, cioè i 5 Stelle, si accingono ad aderire a livello europeo al gruppo del Pse. Pare quasi una barzelletta per come l’hanno giustificata e spiegata pubblicamente, dopo anni e anni di giudizi politici sferzanti – per non dire altro – su come consideravano e giudicavano politicamente quella esperienza. Insomma, una rinnovata qualità della politica passa anche e soprattutto attraverso una classe dirigente all’altezza della situazione. Non può esistere un salto di qualità della politica ed una inversione di rotta rispetto alla stagione del populismo anti politico e qualunquista se non fa capolino una classe dirigente altrettanto qualificata. Al di là della carta di identità, della novità, dell’uno vale uno o di corbellerie simili. 

La qualità della classe dirigente si misura sui contenuti che esprime, sulla progettualità che sprigiona, sulla cultura politica che declina e, in ultimo, sulla rappresentanza sociale di cui è espressione. Il resto, appunto, appartiene solo e soltanto alla propaganda, alla demagogia e al “nulla della politica” per dirla con Mino Martinazzoli. Cioè, alle varie rottamazioni che si sono succedute in questi ultimi anni e ai danni che hanno provocato nella caduta di credibilità della intera politica italiana.