“Tributo naturale: è uno sguardo sull’abisso dell’essere”. Intervista a Barbarah Katia Guglielmana e Ilaria Francesca Martino

È un libro “speciale”, scritto da due dottoresse in medicina, in servizio al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Pavia. Un libro delicato, intimista, che esprime sentimenti e stati d’animo non slegati da questi due anni di tormento pandemico che hanno seminato dolore e morte. Loro hanno toccato con mano molte esperienze di vita, di sofferenza e di morte. E hanno voluto esprimere attraverso pensieri e brevi allegorie il loro stato d’animo “di fronte alla profondità dell’essere”. Dalla sofferenza percepita possono nascere sentimenti di riscoperta della propria identità emotiva e spirituale.

Il vostro libro mi ha stupito positivamente, a cominciare dal titolo. ‘Tributo naturale è uno sguardo sull’abisso dell’essere’. Vogliamo aiutare il lettore a comprenderne il significato più profondo? Quanto conta il dovere del tributo e quanto invece la gratuità dello sguardo? E perché l’abisso che scrutate è l’icona stessa dell’essere?

Risponde Barbarah Guglielmana

‘Tributo naturale’ è un riconoscersi nella matrice del proprio essere, fatto di scarti, magma che scotta, vermi  mostruosi, germogli teneri. Un burrone in cui affogare, e -una volta scandagliato-  in cui imparare a nuotare, riemergendo. A provarci. Questa la grande attraversata del nostro essere. 

Risponde Ilaria Martino

Rendere omaggio è importante. Come quando diciamo “Grazie” a qualcuno, anche solo perchè esiste come semplice presenza. Io credo che La Natura ci venga in soccorso ripetutamente nelle nostre cadute. E’ un dialogo continuo e discreto il suo. Quindi lo sguardo verso la Natura è bene che sia gratuito, per una fruizione vera e libera, ma la riconoscenza è un valore aggiunto, è gentilezza dell’anima! L’abisso che scrutiamo è l’essere stesso, sì ne sono convinta. Possiamo studiare le galassie o l’atomo, ma penso che non ci sia cosa che ci spaventi più dell’ignoto che ci portiamo dentro. Inteso come fatto individuale. La necessità di parlarne è solo un tentativo di comunicare la propria solitudine.

Questo sguardo sull’abisso dell’essere…parte da uno scandaglio interiore: nella sontuosa prefazione il Dott. Moroni chiama in causa Martin Heidegger. Siamo debitori a questo grande filosofo di alcune tematiche da cui scaturisce il pensiero del 900, in tutti i suoi meandri più reconditi. Il senso della vita, l’essere e l’esistere, l’introspezione rivelatrice delle soggettive verità, la messa in mora del pensiero calcolante. Ecco, ho inteso che un libro che incede per aforismi e allegorie, intuizioni e rivelazioni, nascondimenti e desiderio di capire sé e il mondo, può essere sintesi estrema di una narrazione che riguarda voi ma che induce il lettore a cercare le caleidoscopiche forme espressive della nostra poliedrica identità. È un libro vostro che può diventare il libro di ciascuno di noi?

Risponde Barbarah Guglielmana

Sì, me lo auguro. Lavorare alla propria comprensione facendo dialogare il proprio Perturbante con il Fanciullino espone, al miglior obiettivo! la differenza tra l’essere e l’apparire. Capire quello che siamo e non rimanere fermi a quello che volevano che fossimo, o aggrappati a quello che pensavamo di essere! È magari la scoperta della propria ‘America Latina’, citando l’ultimo film dei fratelli D’Innocenzo.  

Risponde Ilaria Martino

Proseguo con quanto appena detto: credo che ogni manifestazione artistica nasca da una inquietudine interiore poco domabile che, in alcuni casi fortunati, viene convertita in immagini e/o parole. Mi piace moltissimo un’espressione che usa Brentano: “la follia è solo la sorella infelice della poesia”. Quando si decide di rendere pubblico un percorso personale, come un dolore, dietro vi dovrebbe essere solo il desiderio di condividere quell’umano sentire. Per me è l’implorazione dell’artista che chiede: “senti anche tu, come sento io? “E’ un tentativo di consolazione, la speranza di inserire la propria individualità in una collettività.

Nella sua sagace postfazione la Prof.ssa Fimiani si sofferma sui rimandi di reciproca riflessione tra voi. In epoca di esplosione della pandemia, in un mondo impreparato e forse colpevole di aver rotto la sostenibilità ambientale, quanto è stato importante ritrovarvi insieme a vivere la vostra professione di medici in un contesto di grande sofferenza collettiva? Come in un gioco di specchi dialogate tra voi, dentro di voi e nel rapporto con la realtà che vi circonda. Quanto è stato utile e importante trovarsi in sintonia per quello che la postfazione chiama un “canto a due”?

Risponde Barbarah Guglielmana

La partecipazione alle paure del ‘mostro Covid’ con la collega e amica Ilaria ha visto l’allestimento improvviso di una pozzanghera alla Pollock in cui contenere, e proteggere, paure per un ignoto, spaventi per rimossi riemersi, coraggi da ridefinire, confidenze al proprio sè rimandate, sostegni alle fatiche. Vedersi nella collega stanca, comprenderne i limiti, rivedere quel senso di onnipotenza salvifica mortificato e poi spaventarsi per la sua -e propria malattia, è stato un accogliere l’umanità di cui siamo tutti fatti, non calcolabile, non programmabile, non inesauribile, non invincibile. Uno specchio e un lago dove rigenerarsi piangendo. 

Risponde Ilaria Martino

Barbara mi ha ospitata nella sua casa quando abbiamo iniziato i turni in Ps Covid. È stata la condivisione di un tempo difficilissimo a livello globale ed individuale. Quando abbiamo contratto il virus in ospedale, abbiamo avuto la fortuna di poterci prendere cura l’una dell’altra. Leggevamo molto e tacevamo. Lei, quando le forze glielo consentivano, disegnava, in silenzio. Io ero ospite in soffitta. Scrivevo e pensavo molto. Un tempo di grande introspezione e di necessaria ricerca interiore. Poi un giorno è uscito il sole, era la Primavera, la Natura sbocciava nel suo giardino e noi non eravamo più le stesse. Barbara mise i suoi bozzetti in giro, sotto le viole, in mezzo al bocciolo di limone, tra i garofani e l’edera rampicante, come una mostra improvvisata all’aperto! Fu allora che io sentii esplodermi dentro quelle parole. Non ci accordammo su nulla. Era una rinascita, certo forse condivisa, come il silenzio e l’oscurità precedenti. Poco dopo io andai via da casa sua e procedemmo, ognuna per la propria strada, ormai diverse, cambiate nel profondo, per sempre.

Questi due anni di attività professionale in un contesto pieno di incognite e di sofferenze quanto vi sono stati utili per capire le solitudini e le soggettività delle persone con cui vi siete rapportate? E quanto è stato importante comprendere il significato esistenziale del dolore? In un libro appena pubblicato lo psichiatra Vittorino Andreoli si sofferma ad analizzare il senso del dolore come occasione di conoscenza profonda degli altri, paradossalmente un abisso da cui si può ripartire e dove si trovano forze e resistenza impensabili per coltivare il desiderio della speranza. Le storie di vita e di morte  che avete conosciuto quale rappresentazione hanno codificato in voi di questa umanità dolente? Sono queste le vostre  “lacrime di sabbia?

Risponde Barbarah Guglielmana

Mi arrabbio sempre quando leggo che le migliori poesie, da qui le più preganti parole nascono dal dolore, ma è così.. Mangiare quelle lacrime ci permette veramente di capirne il sapore. Aver visto da vicino la sofferenza, aver sofferto la propria mi ha aiutata a comprendere qualcosa di più dell’essere malato, qualcosa di più dell’essere il parente di un malato perso in un ospedale, che senza quella carezza che l’amore dà, che vale come una medicina, non può guarire. Sono lacrime di sabbia seccate sul volto che non si staccheranno mai più dal mio curare.

Risponde Ilaria Martino

Io credo che sia un circuito: se io ho conosciuto il dolore fisico o dell’anima, la paura, la sofferenza, la confusione allora posso capire e comprendere il tuo. Se attorno vedo morte, disperazione, incertezza, smarrimento (come quelli che quotidianamente, per due anni di fila, abbiamo incontrato negli occhi della gente), tutto questo non può non entrare in risonanza con le tue paure e la tua vulnerabilità. Sì sono lacrime di sabbia.

In che misura questa lunga esperienza pandemica è stata per voi un’occasione di ripensamento, per collocarvi in una dimensione diversa e nuova di riflessione sui chiaroscuri della vita? Che cosa avete scoperto negli altri e del senso stesso della Vostra esistenza che fino ad allora vi appariva forse sfocato?

Risponde Barbarah Guglielmana

Questo tempo malato è stato lo spazio per fermarsi dalla corsa all’esterno, per iniziarne una interiore, rimandata, congelata, interrotta, dimenticata. 

Risponde Ilaria Martino

Io ho scoperto che la vita è oggi. Che il tempo non va sprecato. Che la poesia e la letteratura sono una grande consolazione, da sempre e per sempre, come lo è la Natura col suo ciclico esistere e il suo continuo e gratuito spettacolo. Ho scoperto che la gratitudine è un gesto di riconoscenza verso il valore che prima di tutto dai a te stessa e che il desiderio che spinge l’essere umano, non dovrebbe mai essere lasciato inesplorato.

Capire se stessi per capire gli altri: sarebbe un fantastico passaggio dal dentro al fuori di sé. Ma, come afferma Luigi Zoja, stiamo perdendo il senso di prossimità, così come secondo Umberto Galimberti…come possiamo applicare “il principio evangelico ama il prossimo tuo come te stesso, se il nostro prossimo non esiste più”? Rispetto a questa visione pessimistica e purtroppo sovente realistica del decadimento delle relazioni umane, dove privacy e trasparenza rivendicate come diritti e conquiste della post-modernità, finiscono per  mettere le manette ai polsi delle relazioni sociali…che cosa vi ha suggerito questo percorso “a due” nella vostra realtà professionale? Quale mondo avete scoperto? Quali bisogni avete colto, quali speranze avete avvertito in voi e intorno a voi?

Risponde Barbarah Guglielmana

Allo scoppio del Covid vi è stata la comunicazione mediatica sul sentirsi tutti vicini nel destino che stavamo sperimentando per la prima volta. Nei mesi successivi l’egoismo è emerso prepotente, dimenticandosi anche l’educazione. Liti condominiali, ad esempio, sono aumentate in numero e gesti violenti, come i femminicidi e le violenze domestiche. Le fragilità adolescenziali stanno preoccupando insegnanti e genitori. Queste sono tutte espressioni di una società che si è basata su effimere quotidianità, non alimentando con concimi le proprie radici, non dedicando tempo reale al dialogo e all’ascolto dell’altro, tralasciandone quindi la costruzione e la manutenzione. Coltivare. Bisogna tornare a coltivare.

Risponde Ilaria Martino 

Io, come penso la maggior parte di noi che abbiamo vissuto l’isolamento, ho scoperto il vero valore dell’intimità che non è solo prossimità. Ho scoperto che il brusio, come le parole vuote mi danno fastidio, mentre ho imparato ad amare il silenzio e a farne dono anche alle persone cui voglio bene. La speranza è che ognuno senta dentro una spinta alla rinascita, dopo un tempo che ci ha tenuti sospesi, come in una bolla di sapone. Abbiamo avuto tutti la possibilità di stare più in compagnia di noi stessi e di capire se quella compagnia ci piace o no. Abbiamo avuto una possibilità. Quella del cambiamento.

“Ci sono notti in cui non c’è la luna ma la sua assenza”….. Sono le notti buie delle inquietudini e poi i giorni senza sole della nostra vita in cui – come scrisse il poeta Attilio Bertolucci- “l’assenza si fa più acuta presenza”? A cominciare dal silenzio, un tema che mi affascina. Da un silenzio che non evoca sentimenti possono nascere solitudini siderali ma anche intuizioni folgoranti. Non è tempo perduto, credo. Io vedo il silenzio come un momento fisiologico e necessario di sospensione per prendere le distanze dalle cose. L’ansia anticipatoria non favorisce la riflessione, infatti. Quanto conta – se conta – il silenzio nella vostra vita?

Risponde Barbarah Guglielmana

Prezioso amico il silenzio. Come sentire il freddo perchè il riscaldamento non funziona, come apprezzare la luce del giorno per ricamare rispetto al led della sera, come aver voglia di mangiare un panino fresco dopo giorni che si rimanda la spesa. Il silenzio mi permette di ascoltarmi, nello spazio svuotato da impegni, da compagnie, da rumori mi permette di ascoltare una voce soffocata dentro me stessa, a tradurne la lingua, a decifrarne i mugugni, a riconoscerla nella sua flebilità perchè trascurata, soffocata, calpestata, camuffata, e rimandata. Il silenzio recupera il rimandato, che non è mai poco.

Risponde Ilaria Martino

Il silenzio è assordante. Credo si debbano distinguere diversi tipi di silenzio, grossolanamente ne esistono almeno due: il silenzio buono, che è la via per la riflessione e la conoscenza, ed è un silenzio amico (benchè si tratti sempre di un amico scomodo, con cui è difficile spezzare il pane, perchè è figlio della solitudine, che, a sua volta può essere fonte di creatività tanto quanto di isolamento e autodistruzione) e il silenzio crudele, quello usato, per esempio, come arma di difesa, il mutismo che teme il confronto. E’ un silenzio fragile, questo, pieno di tristezza, che fa male a chi lo usa e a chi è diretto. Argomento interessante, sicuramente.

“Cerco nel mondo la sua semplicità e ritrovo me stessa”. Semplicità non credo significhi luoghi comuni, banalità, abitudini. Penso alla semplicità come autenticità: difficile affondare nelle radici del nostro essere, ma può avere una valenza liberatoria per sfrondarci dai condizionamenti del “pensiero pensato”. Trovo persino che il contatto materico, la ricerca della natura non deturpata, l’istinto che a volte prevale in noi ci restituiscano autenticità. “Cerco un seno e una identità”. Se mi è consentito trovo che il vostro libro e le vostre metafore richiamino spesso il senso e il bisogno organico della maternità. Come fattore generativo e ri-.generativo: una specie di ritorno agli archetipi della vita, una pausa per rinascere con la vita a cui diamo vita. Mi colloco al di fuori dalle vostre rappresentazioni simboliche? 

Risponde Barbarah Guglielmana

Siamo in un grembo materno sempre, in ogni momento della nostra esistenza, quasi fosse un laboratorio infinito di sviluppo, di sperimentazioni anche.

Risponde Ilaria Martino

Colpita e affondata, nel mio caso. Io ci sono finita appieno in un archetipo, in maniera ovviamente totalmente inconscia, in “Io sono Kore”. La mia risposta a questa bellissima domanda è tutta li’ dentro.

Il vostro “tributo naturale” riassume molte delle spiegazioni con cui la scienza ha motivato l’eziopatogenesi pandemica. Si sta alterando il rapporto con la natura verso una dimensione antropocentrica. Il grande scienziato Edward Osborne Wilson – recentemente scomparso – ha spiegato che c’è una soglia invalicabile alla presenza umana, superata la quale si creano le condizioni per la rottura della sostenibilità ambientale.Possiamo attribuire all’intuizione del tributo naturale anche questo significato? Uso le vostre parole: “È allora che esplodo nella mia pienezza. In questo rendo tributo alla natura che mi abita dentro e fuori. In una espansione continua e salvifica”. Vi chiedo di lasciarci in dono tre parole, tre valori in cui credere, tre chiavi di accesso e comprensione del mondo per una sostenibile armonia in cui “vivere” ed “essere”.

Risponde Barbarah Guglielmana

Comprendersi, dialogare, amare.

Risponde Ilaria Martino

Conoscenza, rispetto, libertà.