Articolo già apparso sul sito internet della rivista Il Mulino a firma di Antonio Banfi

Straniamento: forse non c’è una parola più adatta per descrivere la sensazione che si prova osservando ciò che sta accadendo in queste settimane nel nostro Paese. Il dibattito pubblico è prevalentemente assorbito da questioni poco serie, o – per meglio dire – da questioni la cui gravità deriva più dal coinvolgimento che tali questioni generano piuttosto che dalla loro effettiva rilevanza. Detto in altri termini, il dibattito politico (se ancora così lo si può definire) è ormai appiattito su faccende di corto respiro e di breve se non brevissimo orizzonte, fagocitato da agende nelle quali il tempo si misura in giorni se non ore; dove gli slogan fioriscono su un substrato costituito in parti variabili ma sempre determinanti di ignoranza, ricerca del consenso purchessia, rifiuto di qualsiasi senso di responsabilità, analfabetismo radicato che si estende come una infezione alle più elementari capacità di ragionamento, alle basi della logica. Spiace apparire così tranchant e anzi viene il sospetto di essere un po’ vecchi, magari brontoloni e moralisti, poco aperti agli orizzonti della politica “liquida”: e tuttavia è giunto il momento di dire che il dibattito pubblico italiano è ormai un lupanare, un festoso postribolo che neanche le più sfrenate rappresentazioni della demagogia di Cleone pensate da Aristofane mai avrebbero potuto raggiungere nel suo orrendo livello di abiezione. La questione suscita un forte timore per i destini del Paese, anche perché non pare che questa malattia degenerativa infetti solo l’attuale maggioranza di governo, sempre che così la si possa chiamare.

Questa cosa va detta, e in modo forte e chiaro, per due ragioni fra loro intimamente collegate: la prima è che le strutture istituzionali e politiche di una democrazia sono fragili e non possono reggere a lungo un simile imbarbarimento senza aprire le porte a qualcosa d’altro che allo stato non sappiamo cosa sia, ma che per molte buone ragioni dovremmo temere. La seconda è che la politica distillata ad uso del “popolo”, fatta di tweet, sagra paesana, pomiciate ministeriali e diretta Facebook non è per definizione in grado di confrontarsi efficacemente con i più semplici problemi di gestione della cosa pubblica, figuriamoci quelli maggiori o che abbiano rilevanza internazionale. Su questi scende, non per caso, una coltre di silenzio, come se non esistessero. Si dirà che personaggi da avanspettacolo ricoprono ruoli di primo piano in grandi potenze come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; magra consolazione. E soprattutto quei Paesi hanno – pare – la fortuna di potersi ancora avvalere di un deep state e di una burocrazia ministeriale che ormai in Italia è stata eradicata a colpi di spoils system, ammesso e non concesso che sia mai esistita in quella forma.

Vengo ora al punto che intendo qui sollevare, che mi pare meritevole di un assai preoccupato interesse per i suoi possibili sviluppi, ma non senza ribadire che esso non è certo isolato, sotto la coltre di silenzio: basterebbe pensare alla politica energetica, al commercio estero (la vicenda indecorosa delle dimissioni del board editoriale dell’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane) accuratamente taciuta da buona parte della stampa, la dice lunga), alle relazioni internazionali, solo per citarne alcuni.

Faccio un breve passo indietro: intorno all’anno 2000 terminò clamorosamente la bolla finanziaria dell’high-tech; l’esuberanza irrazionale degli investitori fu costretta, come prima o poi sempre accade, a fare i conti con la realtà e una gran massa di aziende – che spesso avevano al loro attivo poco più di un brand accattivante – fu spazzata via mentre gli indici azionari furono severamente ridimensionati. Le conseguenze sul piano di quella che è talvolta ambiguamente definita “economia reale” per distinguerla dalla finanza furono tutto sommato limitate, con l’usuale raffreddamento recessivo che era lecito attendersi. In quegli anni iniziò a manifestarsi un atteggiamento di politica monetaria, da parte della Federal Reserve, che è difficile non definire compiacente, quando non eccessivamente espansivo. Si ebbero in particolare diversi anni di politica “accomodante” (tassi significativamente bassi) pur in presenza di un’economia che si avviava rapidamente verso la ripresa. Sulle ragioni di questa scelta, da molti aspramente criticata, in particolare, anche se non solo, da parte di alcuni esponenti della destra repubblicana, si dibatte ancora. In ogni caso, come tutti ricordano, tali politiche compiacenti finirono per generare una nuova bolla (deflagrata nel 2008), su asset più senior, più illiquidi e dunque assai più rischiosi dei precedenti: gli immobili. A questo punto il contagio si era avviato e si stava trasferendo dai mutui immobiliari insolventi ai derivati, alle banche stesse, i cui bilanci rischiavano di rivelare patrimoni ampiamente costituiti di carta straccia, ai titoli di debito in generale, inclusi quelli sovrani. Il “delfino” di Greenspan, Ben Bernanke, detto “Helicopter” da una famosa frase di Milton Friedman da lui rilanciata in un discorso del 2002, secondo la quale si sarebbero dovuti lanciare i dollari dagli elicotteri per estinguere l’incendio finanziario, reagì approfondendo le politiche accomodanti, non solo operando sui tassi, ma attraverso politiche non convenzionali (il cosiddetto quantitative easing, un intervento diretto sui prezzi degli asset), successivamente adottate anche al di fuori degli Stati Uniti.

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