Un magistero aperto alla modernità. «Dinamiche e politiche culturali nell’età di Leone XII». La recensione dell’Osservatore Romano.

 

Il volume mette in luce un governo come quello di Papa Annibale della Genga, marchigiano, basato sul magistero, lortodossia e la tradizione, e che invece finisce per aprirsi alla modernità, allinterdisciplinarità fra arti e scienze che è anche incontro tra Roma e Europa; tra artisti e studiosi internazionali, a volte anche a-cattolici.

 

Paola Petrignani

 

L’ultima voce all’interno di un piccolo ma importante coro di studi: il volume Dinamiche e politiche culturali nelletà di Leone XII — presentato nel pomeriggio del 16 giugno alla Pontificia Università Gregoriana — è il neo uscito nell’ambito di un progetto che da dieci anni, grazie all’Associazione “Sulla pietra di Genga” e al comune di Genga, ripensa e approfondisce il pontificato leonino e il periodo della Restaurazione pontificia.

 

La presentazione — avvenuta all’interno della serie di incontri dei Dialoghi sul Risorgimento a tema Ripensare la Restaurazione — è stata introdotta da Marek Inglot, Decano della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa Pontificia Università Gregoriana, moderata da Andrea Ciampani (Università Lumsa), e ha visto protagoniste Catherine Brice (Université Paris-Est Créteil) e Stefania Petrillo (Università degli Studi di Perugia). Proprio partendo dal volume di Giovanna Capitelli, Ilaria Fiumi Sermattei e Roberto Regoli, le studiose sono intervenute per aggiustare il tiro, per definire e approfondire quegli spunti di riflessione derivati dalla lettura delle dense pagine. E questo perché, come è stato detto alla Gregoriana, il volume interroga la storia e ripensa l’intera epoca della Restaurazione, nonostante la sua focalizzazione sulle politiche (e attenzione, non una “politica” ma una molteplicità di politiche e dinamiche) del pontefice salito al soglio di Pietro nel 1823. Poco più di un anno e ne sarà anzi il bicentenario: durante la presentazione è emerso chiaramente quanto questo evento sia atteso dagli studiosi e dall’Università tutta.

 

Attraverso una breve scorsa della serie dei saggi che animano il volume, suddiviso a sua volta per macroquestioni — Istituzioni e Riforme, Contesti e Figure, Interventi e Strumenti —, ci si è presto resi conto di quanto la fatica di questi studiosi non sia solo luogo di costruzione di un nuovo sapere, ma sia anche l’ennesima struttura di un «cantiere aperto» che ripensa la storiografia del (e attorno al) pontificato leonino. Partendo da problemi irrisolti, si è quindi tentato di andare oltre, di approfondire la materia per darne uno spiraglio di (possibile) verità. E in sede di dibattito è stato interessante vedere come queste problematiche non siano veramente risolte, e come esse possano essere ancora e ancora motore di nuove riflessioni.

 

In primis quelle di Catherine Brice, che grazie al libro scopre una Roma molto più variegata e diversificata, «molto meno cupa» di quanto si possa pensare, la quale, definendo alcune linee di riflessione iniziali, arriva a una conclusione che è tutto meno che una conclusione (esattamente quello che ci aspetteremmo da una dibattito tra studiosi). E questo perché l’ambiguità politica di Leone XII non è potuta rimanere fuori dal suo intervento. La politica leonina (che, come detto, non è unica e singolare, ma è piuttosto plurale e variegata) ha portato la studiosa a interrogarsi su quella «doppia complessità» che intreccia la stessa idea di politica culturale a quella piuttosto puramente pubblica. Quella di un governo come quello papale, basato sul magistero, l’ortodossia e la tradizione, e che invece finisce per aprirsi alla modernità, all’interdisciplinarità fra arti e scienze che è anche incontro tra Roma e Europa; tra artisti e studiosi internazionali, a volte anche a-cattolici.

 

Ma esattamente da dove deriva questa politica? È intenzionale — e quindi il cuore della personale ambiguità politica di Leone XII — o piuttosto deriva da una mancanza di mezzi da parte del governo pontificio, altra faccia dello squilibrio delle finanze papali che proprio per la carenza di questi mezzi non poté che affidarsi a una moltitudine di artisti e studiosi privati? È una contraddizione che ha mosso buona parte del dibattito pomeridiano: il paradosso di politiche culturali di restaurazione che diventano anzi il fulcro della diversità e della ricchezza del pontificato, «ma non per forza del pontefice».

 

Da questa prospettiva si è giunti alla domanda di Petrillo: si potrebbe allora parlare anche di un »sistema dell’arte»? Termine prettamente contemporaneo, eppure un ottimo spunto per cercare di comprendere il lavoro culturale attorno alle arti sotto il pontificato leonino. Anche qui, una piccola contraddizione: l’allora mobilità degli artisti e di chi voleva farsene una guida (si prenda d’esempio Angelo Mai) è in parte assoggettabile a un modello simile, ma il sistema leonino imponeva una gerarchia, e questa stessa gerarchia preclude un «sistema dell’arte» nel vero senso della parola, nonostante il grande coinvolgimento degli artisti.

 

Ed ecco di nuovo il paradosso, la contraddizione; la pluralità di un periodo controverso che fu però un momento di grande apertura per la città. Roma, con Leone XII , si apre alla cultura europea in un modo tutto nuovo; ne diventa anzi un altro centro, nonostante una filiera di comando attenta a ben altra ortodossia. Ma ancora tornano le domande, quindi: Come funziona veramente questa filiera? Il quadro è tutto meno che monolitico, e il volume di Capitelli, Sermattei e Regoli obbliga a ripensarne il sistema imponendone, anzi, una visione plurale e complessa. Ma come concludono anche gli studiosi, la Restaurazione va sicuramente ancora studiata a fondo.

 

Questo articolo è stato pubblicato sull’Osservatore Romano del 17 giugno 2022. La riproduzione avviene per gentile concessione del giornale.