“Un progetto dal significato schiettamente separatista”: così Ernesto Galli della Loggia in un ‘fondo’ di prima pagina sul Corriere della Sera di martedì scorso, 16 luglio 2019, illustrando il progetto di “autonomia rafforzata” portato avanti da alcune regioni del Centro-Nord e, segnatamente, da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.

Data l’autorevolezza dell’Autore dell’articolo e della sede di pubblicazione di quest’ultimo, non è necessario dilungarsi in spiegazioni particolareggiate per segnalare quale sia il pericolo dell’attuazione del regionalismo differenziato non solo per le regioni del Sud ma per l’intero Paese. Giustamente, però, faceva notare sempre Galli della Loggia che la divisione dell’Italia non è solo un pericolo che si profila a causa del regionalismo differenziato ma addirittura un dato di fatto che già connota la realtà che costituisce l’Italia: il Nord (con Milano), sempre più lanciato verso traguardi di sviluppo da poter competere con i territori più avanzati del Continente se non del Pianeta, ed il Sud (con Roma risucchiata nel suo ambito), sopraffatto dalla sua inefficienza, dall’evidente degrado ambientale, dal diffuso strapotere della delinquenza, dalla generalizzata incapacità delle amministrazioni locali ed, infine, dalla mancanza di serie prospettive. In altri termini, la condizione socio-economica che connota il nostro Paese è la riprova più esplicita della distanza sempre maggiore che ormai separa Nord e Sud e quindi la prova indiscutibile della sua divisione.

Come, peraltro, conferma il drammatico divario emerso in questi giorni in materia di istruzione: con riferimento alla quale alla sostanziale tenuta del Centro-Nord fa riscontro il continuo avanzare dell’analfabetismo e dell’ignoranza nel Mezzogiorno.
Ora, di fronte ad una simile crisi dell’unità del Paese ed al suo continuo approfondirsi, ciò che fa veramente paura è la mancanza di ogni sua consapevolezza, il disconoscimento delle conseguenze della sua possibile ulteriore degenerazione e, soprattutto, l’assenza di un qualche tentativo tra le forze politiche con il baricentro rivolto a meridione di assumere una iniziativa di rilievo per cercare di porvi rimedio. Manca, insomma, una qualsiasi prospettiva. Non c’è alcun progetto generale che si proponga di affrontare la quistione. Al massimo si conducono battaglie difensive per limitare le perdite sempre più incalzanti e per preservare ambiti di potere sempre più insignificanti se non per chi lo esercita. Stante questa situazione, è inevitabile che il progetto “separatista” delle Regioni dello Nord vada avanti, non contrastato veramente da nessuna idea alternativa, e presto trasformi da situazione “di fatto” in situazione “di diritto” il gap che separa il Sud dal Nord, relegando il Mezzogiorno ad appendice periferica del Paese, utile ad un’unica funzione: quella di farsi depredare.
Naturalmente, detto questo, sarebbe necessario vedere quali siano le cause principali di questo declino. Se, come sostenuto in un recentissimo libro di Antonio Accetturo e Guido de Blasio [Morire di aiuti.

I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli), IBL Libri], non tanto l’abbandono delle aree meridionali da parte dello Stato quanto piuttosto l’erroneo sostegno che ha favorito solo gli interessi di una classe dirigente parassitaria di basso livello che ha gestito i trasferimenti “in modo indecente”. Oppure, il cambio di indirizzo politico registratosi dopo l’uccisione di Piersanti Mattarella che ricacciò le regioni del Sud nella loro condizione di frammentarietà che la politica della Cassa per il Mezzogiorno, in qualche modo, e la strategia macroregionale del presidente siciliano ucciso, vieppiù, avevano cominciato a superare, ottenendo risultati indiscutibilmente positivi, riscontrabili proprio in ordine alla diminuzione del divario Sud-Nord. O, ancora, se l’istituzione tout court delle regioni a statuto ordinario che spostarono l’asse della politica in direzione Centro-Nord. Non è questa, però, la sede per un approfondimento di queste cruciali quistioni.
Piuttosto, a me pare che nel contesto del ragionamento che si accennava il principale problema da affrontare sia un altro. E, cioè, che di fronte al disastro documentato dai numeri che si possono trovare nelle statistiche di qualunque parte politica (tanto che una legge dello Stato, la n. 18 del 2017, ha dovuto sancire -restando naturalmente lettera morta- che gli investimenti delle amministrazioni statali debbano corrispondere alla percentuale degli abitanti del Sud, vale a dire il 34%) al Mezzogiorno oggi manca ogni visione nazionale ed europea dei processi di ‘modernizzazione’ che sicuramente non possono prescindere dalla considerazione degli scenari globali. Come, invece, avvenne al tempo della Cassa per il Mezzogiorno quando l’intervento straordinario fu il risultato di un programma condiviso tra Stati Uniti, Italia e Sud del Paese che seppe coinvolgere organismi internazionali come la Banca mondiale.

Dunque, è di una vision, di una visione di quale sia il corso della storia, ciò di cui dovremmo dotarci per affrontare i problemi ed i pericoli di una regionalizzazione sempre più autocentrata che pensa di risolvere le quistioni del proprio futuro aggrappandosi allo status particolare di ogni singola regione ed aggregandosi tra regioni più forti e ricche, dimentica di ogni ragione di solidarietà e di coesione territoriale.
Ma se così è, il primo obbiettivo di quello che potrebbe essere il progetto di carattere generale da lanciare da parte del Sud è l’idea di un patto nazionale, che coinvolga tutto il mondo delle autonomie, per dare unitarietà alla politica del Paese e far capire che quest’ultimo può competere a livello europeo e globale solo se si rafforza come sistema unitario, nel suo complesso. Non certo se spezzoni di esso pensino di rafforzarsi individualmente. Se questa idea di un patto nazionale per bilanciare il regionalismo differenziato -sempre più tendente verso una sostanziale secessione- dovesse poi alla fine essere accolta, allora sì che potrebbero immaginarsi alcuni provvedimenti immediati e, forse, anche una grande proposta.

Cominciando dai primi, si potrebbe innanzi tutto cercare di ricomporre la frammentazione oggi esistente tra politiche per il Mezzogiorno e politiche per la coesione avviando un’opera di coordinamento degli interventi che qualcuno propone di realizzare intorno a Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa collegata con la Banca del Mezzogiorno. In secondo luogo si potrebbe cercare di ottenere dall’Unione Europea l’istituzione di una agenzia per lo sviluppo euro-mediterraneo che coinvolga quanto più possibile gli stati della costa africana ed aiuti tutti i Paesi del bacino a proiettarsi verso le opportunità create dal raddoppio del canale di Suez e dall’apertura della nuova via della seta. Un altro provvedimento dovrebbe poi riguardare i diritti garantiti costituzionalmente sul territorio nazionale -mi riferisco in particolare a sanità ed istruzione- che devono essere assicurati con lo stesso livello minimo di servizi. Infine, un altro punto irrinunciabile di questo patto nazionale dovrebbe essere la permanenza in capo allo stato del governo di alcune politiche nazionali come quelle della cultura e dei trasporti.
Ma la proposta più qualificante di questo patto dovrebbe essere costituita da una ferma volontà di dar vita ad una macroregione del Mediterraneo occidentale fra tutte le regioni del bacino del Mediterraneo per realizzare, finalmente, una politica di coesione sociale, economica e territoriale, che oggi costituisce la piattaforma indispensabile per lanciare le terre di mezzo (il Mediterraneo) nella competizione globale.

Non sarà facile. Perché si ha la sensazione che delle strategie macroregionali dell’Unione Europea la politica meridionale non sappia nulla ed ancora peggio non le interessi alcunché. Ma se così è, è inutile stracciarsi le vesti per il regionalismo differenziato di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna in quanto queste regioni è vero che si battono per allargare i margini della loro autonomia in base all’art.116, comma 3, Cost. ma il loro vero disegno politico-istituzionale è il rafforzamento della loro presenza in seno alle macroregioni (Alpina e Adriatico-Ionica) alle quali rispettivamente aderiscono e che certo non possono essere osteggiate da miopi politiche localistiche di gruppi potere ormai sconfitti dalla storia.