Ungaretti e il pensiero dell’erranza

Alla ricerca della terra promessa tra nomadismo biblico e vocazione al viaggio

Articolo già apparso sulle pagine del’Osservatore Romano a firma di Paola Montefoschi

In un frammento poetico — una sorta di carta d’identità costruita su emblemi — Ungaretti fissa una delle prime immagini del suo nomadismo: “E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”. I versi scritti in trincea durante la Grande guerra e datati 14 febbraio 1917 furono inizialmente pubblicati con il titolo La filosofia del poeta, sostituito nelle successive edizioni, fino all’ultima ne varietur, con Allegria di naufragi. L’ossimoro “allegria di naufragi” condensa il senso di quel succedersi di patimento e speranza, che appartiene alla vicenda umana del poeta ed è alla radice della sua vocazione al viaggio. Dice a se stesso, in Pellegrinaggio: “Ungaretti/ uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio // Un riflettore / di là / mette un mare/ nella nebbia”. Riprendere il viaggio dopo ogni sosta — altri paesi e altri naufragi — tendere verso una meta che continuamente sfugge o inganna (“un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia”), inseguire il miraggio: diventa la cifra costante di una narrazione che si snoda lungo tutto il canzoniere ungarettiano.

Giuseppe Ungaretti

Una narrazione che ci riporta alle “origini”. Leggiamo nel libro della Genesi, (11, 1-4): «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Con quel che segue: il Signore scese per vedere cosa stesse accadendo; più incuriosito dal progetto audace di quegli uomini che indignato per la loro hybris decise di ostacolare la loro opera; confuse la loro lingua in modo che non si comprendessero più l’un l’altro; gli uomini allora “cessarono di costruire la città”; si dispersero per tutta la terra e la loro lingua non fu più una sola.

In Babele o dell’incompiutezza, pubblicato postumo nel 1997, il filologo svizzero Paul Zumthor riconosce nel breve e ambiguo racconto biblico una tale concentrazione di valori simbolici, da renderlo ancora un “enigma attivo”. Tra le tante “latenze” nascoste nel testo, lo studioso ne porta alla luce una in particolare. Andando oltre l’esegesi patristica, che si sofferma sulla sequenza: peccato di orgoglio dell’uomo e castigo divino (dice infatti: «Parlare di collera divina e di punizione supera la portata del testo»); mettendo in secondo piano il racconto eziologico della nascita delle diverse lingue; si concentra infine sul campo lessicale che concerne l’aspetto tecnologico («facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco» — «costruiamoci una città e una torre»). Conclude Zumthor: «Babele annuncia, nella serie dei libri biblici, un tema che vi si incontrerà ormai fino alla fine: l’opposizione tra i sedentari e i senza-luogo». In tutti i testi dell’Antico Testamento e, in particolare in quelli della Genesi e dell’Esodo, si intrecciano racconti di stanziamento e di erranza, di soste e di riprese del viaggio, di città maledette e di fughe nel deserto.

Dalla cacciata di Adamo, alle storie di Noè, Abramo, Mosè e oltre si ripropone lo stesso schema dialettico, il cui polo positivo è evidentemente costituito dalla “ripresa del viaggio”. Viaggio, secondo la lettera veterotestamentaria, di riconciliazione con Dio e di obbedienza alla Legge, ritorno all’innocenza edenica smarrita, cammino verso il “paese di latte e miele”, verso la terra promessa a Mosè e al suo popolo. Zumthor coglie il senso positivo dell’erranza biblica e lo trasforma in valore universale. Afferma: «Per il rifiuto di insediamento che manifesta, per la dispersione spaziale che realizza […] il nomadismo si integra nella nostra storia collettiva come un fermento». La contrapposizione, poi, tra Babelici, con il loro tentativo di società organizzata, e nomadi, con la loro scelta di vita girovaga nel deserto a contatto con la natura vergine, gli offre l’occasione di ricollegare la favola narrata dallo Iahwista alla realtà di oggi. Babele, infatti, prefigura l’orrore delle metropoli contemporanee, chiuse in sé ed esclusive, ingiuste nell’emarginare i più deboli e ottuse nel non comprendere che le «migrazioni di tutti i tipi diffondono civiltà e culture».

Tornando a Ungaretti, i nomadi biblici sono gli antenati di quei beduini che egli vedeva, durante la sua giovinezza egiziana, attraversare con i loro cammelli il deserto e andare incontro «al lampo dei miraggi». Immagine che diventerà icona della sua poesia e contribuirà a formare la sua identità di “senza-luogo.” Come descritta nei primi versi di Girovago del 1918: «In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare // A ogni/ nuovo / clima / che incontro / mi trovo / languente / che / una volta / già gli ero stato/ assuefatto // E me ne stacco sempre / straniero». Alla fine del componimento e per la prima volta nel suo canzoniere, Ungaretti rende esplicite le ragioni ultime del suo nomadismo: «Cerco un paese / innocente». Che, tradotto in termini di poetica, significa: ricerca di una parola innocente, assoluta, edenica. Meta agognata dell’umile fante che si è scoperto poeta in trincea. Meta che il novello Rimbaud cerca di raggiungere per inabissamento: «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso».

(Commiato) Una ricerca che col tempo muterà il suo orientamento: non più sprofondamento nel segreto inesauribile della vita e ritorno alla luce con il tesoro avaro di poche parole sillabate e poi disperse nel mondo, ma penoso cammino sulla superficie del mondo, come un nomade antico verso la sua terra promessa.