Il testo è tratto dall’edizione del 21 Marzo dell’Osservatorte Romano. La grande guerra, dice l’autore, “è la vera prima guerra “moderna”. Non stupisce che la schiera dei futuristi, si sia lanciata a descriverne avanguardisticamente il tripudio tecnologico prima di tutto. Una celebrazione della contemporaneità più sfrenata, della velocità, dell’azione indomita, del motore lanciato verso il futuro”. 

Nicola Bultrini

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, Giuseppe Ungaretti era, insieme a tanti intellettuali e artisti, italiani ed europei, un convinto interventista. Poi ha fatto la guerra. E l’ha fatta fino alla fine, sempre da soldato di truppa, sempre in prima linea. Il poeta ha vissuto la terribile guerra di trincea e proprio nel fango delle trincee ha scritto le meravigliose poesie de Il porto sepolto. Letteralmente, a pochi metri dal nemico, ha scritto versi memorabili, che non parlano solo del contesto bellico, ma dell’uomo in quanto tale di fronte all’assoluto (la vita, la morte, il mistero che le avvolge). Ma cosa accade a un poeta di fronte alla guerra?

La poesia, l’impulso di “cantare” le storie della vita e di interrogarsi, esiste da sempre. Come purtroppo, da sempre esiste anche la guerra. Omero nell’Iliade, racconta una storia di guerra, ma in un’ottica di epica collettiva. Riesce a evitare la retorica innanzitutto adottando un punto di vista ad altezza d’uomo, al centro degli eventi. Soprattutto, lasciando emergere l’elemento umano nella sua naturalezza. Come non ricordare il figlioletto di Ettore che piange infastidito dalla criniera dell’elmo, o il temibile Achille che accoglie l’ambasciata di Odisseo, prima di tutto cucinando un pasto per gli ospiti. Tuttavia, proprio la componente epica consente l’astrazione, l’idealizzazione che non a caso conducono all’esaltazione degli eroi, alla solennità di singoli gesti altamente metaforici. Forse è proprio l’elemento simbolico, quello caratterizzante lo stesso conflitto armato in quanto tale. 

La Grande guerra invece, è la vera prima guerra “moderna”. Non stupisce che la schiera dei futuristi, si sia lanciata a descriverne avanguardisticamente il tripudio tecnologico prima di tutto. Una celebrazione della contemporaneità più sfrenata, della velocità, dell’azione indomita, del motore lanciato verso il futuro. Non più la folgore divina, dunque, ma le esplosioni (anche verbali e lessicali) delle cannonate, come un seducente e meraviglioso tripudio pirotecnico. Al fronte andò un altro poeta, Gabriele D’Annunzio, che però non “passeggiò” mai in prima linea. La sua era una parola (e lo vediamo anche nella poesia) che si poteva tranquillamente esporre alla retorica. Proprio come poteva fare il Vate, petto in fuori, ad arringare i soldati, ma audacemente al sicuro nelle retrovie.

Invece, per il giovane Ungaretti, che ha davanti agli occhi la “terra di nessuno”, la desolazione della guerra si scontra con la ricerca dell’assoluto e muove il riscatto vitale all’annullamento dell’uomo. E proprio come il fante si accuccia in trincea per proteggersi, la parola si ripiega per farsi essenziale, autosufficiente; così come il fante riduce l’esposizione al nemico, la parola riduce l’esposizione alla retorica. Il poeta scrive in una lettera dal fronte «mi contraggo in un pianto che è una pietra». Parole che nei versi diventeranno: «come questa pietra è il mio pianto che non si vede». Del resto, fu lui stesso a spiegare: «Le poesie hanno fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia, non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta».

La devastazione materiale della guerra sbriciola la realtà (la terra, le case, i corpi). Anche i suoni sono lacerati, frammentati. Ne deriva che anche per l’individuo la percezione della realtà è sminuzzata, ridotta a schegge amorfe, incandescenti e taglienti.

Non c’è spazio per gli intellettualismi, la parola stessa deve farsi forte e riappropriarsi di tutto il suo significato, delle sue suggestioni. L’uomo poeta con la parola attinge al suo io più profondo e finisce per reinventare la realtà, rinominandola. Così, la guerra stessa diventa uno scenario più vasto in cui si svolge un dramma più ampio, che riguarda tutta l’umanità. Sempre nella Prima guerra mondiale, sul fronte della Somme, nell’11mo Fucilieri del Lancashire, c’è anche il sottotenente John Ronald Reuel Tolkien, che si trovò coinvolto nel pieno dell’inferno in cui in poche ore morirono decine di migliaia di uomini. In quel contesto in Tolkien (che fu anche poeta ed è comunque innegabile il lirismo che pervade tutta la sua opera) si forma l’idea del suo capolavoro Il Signore degli Anelli.

Dalla mitologia inquietante della «Terra di Mezzo», fino all’immaginario della Contea, la terra pacifica dove tutti sognano di tornare. Anche per Tolkien la guerra impone la presa di coscienza della condizione umana e della fraternità degli uomini nella loro sofferenza, la precarietà della loro condizione.

Nella Seconda guerra mondiale, il poeta Vittorio Sereni è prigioniero in Africa, quando apprende dello sbarco in Normandia. Nel suo Diario d’Algeria, scriverà i versi «Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna». A questo soldato americano però, il poeta in preda al disincanto, disorientato ed estraniato, chiede: «prega tu se lo puoi, io sono morto / alla guerra e alla pace». L’eco delle due guerre mondiali non si è mai spento. E nel 1978, Andrea Zanzotto scrive Il galateo in bosco: «E si va per ossari. Essi attendono / gremiti di mortalità lievi ormai». Zanzotto ripensa agli eventi della Grande guerra che hanno devastato la sua terra. Ma di fronte ai monumenti, ai sacrari, cerca di patirne la radicale distanza dalla retorica spettacolarizzazione, compiuta nell’ambito delle commemorazioni ufficiali. Ma le guerre non finiscono, sono dappertutto. A volte non le vediamo perché sono lontane, sembrano non riguardarci.

Altre volte si impongono nell’immaginario collettivo indelebilmente. Come la guerra in Vietnam. E anche qui i poeti vivevano, lottavano, scrivevano. Il vietnamita Vien Phurong ha combattuto quella guerra e poi ha scritto «Scrivo poesie di inutili versi / per dare a te e dare a me motivo di piangere».

In questi giorni sembra incredibile il caso di Ilya Kaminsky, nato in Ucraina, a Odessa, e ora cittadino americano, che tre anni fa ha pubblicato il volume Repubblica sorda (recensito da Nicla Bettazzi su questo giornale). È una sorta di poema in cui narra le vicende di un paese invaso da un esercito straniero. Quando la popolazione assiste all’ennesima violenza gratuita contro un individuo inerme, decide di adottare come forma di resistenza, la sordità. Tutto il popolo, di fronte alla follia della guerra (fatta di boati, spari, ma anche ordini violenti, proclami), decide di non sentire più! Per un poeta la guerra può essere retorica, epica, disorientante, ma anche può costringere a cercare un senso nelle lacrime, comunque pone l’uomo di fronte a un assoluto, la sua natura universale perennemente in bilico tra il bene e il male.

E la poesia, l’arte, a cosa serve? Può davvero offrire una “salvezza”? È giusto pensare di sì. Ma l’arte salva solo a condizione che apra alla verità. Il che implica che si sia disposti ad aprirsi alla verità, mettersi in gioco entrando nella realtà. Non è un caso allora che, finita la guerra, tornando da una visita al Monastero di San Benedetto a Subiaco, nella Pasqua del 1928, per Ungaretti il mistero si schiuda nella fede, aprendo così il cammino della sua conversione. Anni dopo, ormai vecchio, Ungaretti, ripensando agli anni della guerra, al suo giovanile interventismo, scrisse: «Viviamo nella contraddizione. Posso essere un rivoltoso, ma non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono dietro alle bubbole».