Unione Europea. Patto di stabilità e crescita: ritorno al futuro. Il focus dell’ISPI.

Il PSC era sotto esame già prima del Covid, ora entra nel vivo la discussione attorno a ciò che qualifica la sua (re)introduzione. In Italia, purtroppo, non si hanno segni di attenzione.

 

La crisi economica da Covid-19 ha reso necessario sospendere il Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Un inevitabile (e giusto) liberi tuttiche è però a scadenza. A meno di sorprese (ed evoluzioni negative legate al Covid), il PSC rientrerà in vigore allinizio del 2023. Manca quindi poco più di un anno per capire se tornerà con il suo ben noto – e da alcuni temuto – carico di vincoli (come il famoso 3% del deficit/Pil e il 60% del debito/Pil) o se verrà sostituito da un Patto tutto nuovo.

La Commissione europea stava già pensando di riformarlo nellambito di una revisione dellintera governance economica europea nel febbraio del 2020, appena prima che il coronavirus irrompesse in Europa. Da allora non solo il Patto ma anche la discussione sul suo futuro hanno ceduto il passo alle iniziative europee per far fronte alla crisi economica. Ma mentre nellUE torna la crescita (con 24 paesi su 27 che torneranno ai livelli pre-crisi già entro fine anno e i rimanenti che recupereranno entro il prossimo), la Commissione riavvia il dibattito con una Comunicazione     che fa il punto e cerca di tracciare per grandi linee la direzione del Patto post-pandemia. Cosa ci aspetta dunque? Lo stesso Patto? Uno più morbido o uno ancora più rigoroso? E cosa dovrebbe augurarsi lItalia?

Nel febbraio 2020 la Commissione europea faceva una valutazione della governance economica europea, includendo principalmente il PSC e la Macroeconomic Imbalance Procedure (MIB) che monitora 14 indicatori principali che dovrebbero segnalare possibili squilibri macroeconomici sia interni (indebitamento pubblico e privato, disoccupazione, sviluppo dei mercati finanziari ecc.) sia esterni (saldo delle partite correnti, quota di export mondiale, costo del lavoro ecc.). La stessa Commissione riconosceva diverse lacune testimoniate da uneconomia europea con un potenziale di crescita basso, da una inflazione persistentemente bassa (almeno allora) e da livelli di debito stabilmente alti soprattutto in alcuni Paesi. 

Era la stessa Commissione europea dunque a segnalare che, malgrado gli sforzi fatti negli anni passati usando questi strumenti, rimanevano vari problemi: le politiche fiscali degli Stati membri risultavano tendenzialmente pro-cicliche (non si riduceva sufficientemente la spesa in periodi di crescita, per poterla poi espanderla in quelli di crisi); gli investimenti non venivano finanziati a sufficienza (contrariamente alla spesa corrente elettoralmente più utile per i leader politici); la relazione tra PSC e MIB allinterno del Semestre europeo non risultava sufficientemente adeguata (oltre a presentare duplicazioninel monitoraggio, come nel caso del debito pubblico). Per non parlare di vari dubbi che molti sollevavano in merito ad alcuni problemi metodologicinel procedere al monitoraggio (come per la definizione e calcolo delloutput potenziale) e ad alcuni aspetti non adeguatamente considerati (come la relazione tra la politica monetaria e quella fiscale o gli effetti delle politiche fiscali nazionali sugli altri Paesi membri).

Insomma, diverse criticità pesavano sullintero modello di governance economica europea già prima del Covid e da più parti si chiedeva una revisione delle regole soprattutto nella direzione di una maggiore crescita.

 

Nel 2023 il PSC dovrebbe tornare a essere applicato e ad ottobre la Commissione europea ha scritto una Comunicazione che mette in luce non solo le criticità pre-Covid, ma anche quelle post-Covid, avviando al contempo una consultazione pubblica. La Commissione invita quindi a prendere in considerazione anche le lezioni imparate durante la pandemia. Lobiettivo generale che si intende perseguire con questa riforma riguarda la riduzione del debito pubblico (soprattutto in alcuni Paesi, Italia inclusa) da attuare però in modo che risulti sostenibile e growth-friendly. Si richiama poi la necessità di rinforzare la natura anti-ciclica delle politiche fiscali e di sostenere gli investimenti nella direzione soprattutto della transizione verde e digitale. Il tutto in un quadro di norme chiare, trasparenti e in grado di far emergere il livello di compliancedei vari Stati membri (al posto di quelle odierne che lasciano ampi margini di discrezionalità e interpretazione). Volendo quindi sintetizzare: puntare a una crescita più forte, equa e sostenibile, maggiori investimenti e un più stretto monitoraggio sul come– oltre che sul quanto” – spendono gli Stati membri. È da questa impostazione che si dovrebbero poi far discendere le regole specifiche, decidendo quanto salvare dalle vecchie e quanto invece cambiare.

Diverse proposte concrete sono già state avanzate. Tra queste quella dello European Fiscal Board che propone di eliminare le incertezze e interpretazioni a cui si presta il PSC con tutte le modifiche introdotte nel tempo (incluse quelle del Six Pack che imporrebbeuna riduzione di 1/20 allanno rispetto alla differenza tra il debito/Pil attuale e lobiettivo del 60%). Al suo posto si identificherebbe un unico vincolo (riduzione del rapporto debito/Pil al 60%) differenziato per Paese (più stringente per quelli più indebitati, ma con percorso rivedibile) e basato su un rigoroso controllo della spesa pubblica (net primary expenditure), con la possibilità di derogarvi (ad esempio in gravi situazioni di crisi) a fronte di una valutazione operata da un organismo indipendente.

Per un Paese altamente indebitato come lItalia si tratterebbe di una opzione auspicabile rispetto a quella odierna (riduzione di 1/20 allanno)? Secondo alcuni calcoli nei primi anni gli sforzi richiesti allItalia sarebbero inferiori, per poi aumentare negli anni a venire. Forse anche troppo, al punto che vengono suggerite alcune modifiche sul ritmo di riduzione del debito per rendere gli sforzi più uniformi (ovvero senza eccessivi picchi) nel tempo.

Queste muovono dalle stesse premesse: la constatazione che durante le fasi di consolidamento dei conti pubblici (e conseguente riduzione del debito) sono gli investimenti a farne la spesa. È quello che è successo con la precedente crisi finanziaria quando Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia hanno tagliato a metà la loro spesa per investimenti, mentre aumentava (di circa il 5%) la spesa corrente. Una situazione che inevitabilmente riduce le potenzialità di crescita di questi Paesi. E che potrebbe rendere impossibile perseguire gli ambiziosi obiettivi ambientali dellUE che richiederebber. investimenti annuali (pubblici e privati) per circa 980 miliardi di euro nellUE per raggiungere la neutralità ambientale entro il 2050. Si propone quindi di scorporare gli investimenti pubblici necessari per raggiungere questi obiettivi dal calcolo del deficit-debito (green golden rule), lasciando per il resto il PSC così com’è.

*Antonio Villafranca, Direttore di ricerca ISPI

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