USA: furore e calunnie

L’America è un paese diviso. La rivolta dell’America profonda è avversata con ogni mezzo in circa metà della società americana.

Negli USA i Democratici non hanno accettato l’inattesa vittoria di Trump nelle elezioni del 2016. Hanno reagito con la guerra al presidente: nei media, nella società e in Congresso. La guerra ha preso molte forme: le marce e le urla sulle piazze e nei campus universitari; il boicottaggio di riforme e nomine in Congresso; le calunnie e le aggressioni mediatiche; la nomina di un procuratore speciale senza che vi fosse un crimine da indagare, e l’affidare la relativa indagine a procuratori vicini al partito Democratico; gli interventi di giudici partigiani per bloccare le delibere di Trump; le aggressioni personali in luoghi pubblici a collaboratori di Trump o a suoi sostenitori; le quotidiane falsità costruite dai media, anche quando recano danno alla nazione (le aberrazioni che hanno fatto seguito all’incontro in luglio tra Trump e Putin a Helsinki ne sono un esempio). Tutto ciò con l’obiettivo di impedire al governo Trump di portare avanti i programmi e, se possibile, di destituire Trump.

Da parte dei Repubblicani, il sostegno a Trump non è mai stato completo. Molti politici del GOP (i Bush e il loro clan, McCain, Corker ed altri) non hanno perdonato a Trump di aver vinto le primarie del GOP. Con scelta sconcertante, giornalisti già vicini al GOP (Bill Kristol, George Will, Jennifer Rubin, e in parte persino il mite Chris Wallace di Fox News) si sono schierati contro Trump e non si frenano nel condurre attacchi personali contro di lui. Le primarie presidenziali in America non sono una corsa verso la santità, e le enfasi di linguaggio di Trump, nel contesto di un’aspra contesa, erano poco evitabili. I politici, i professori, i giornalisti e i finanziatori Repubblicani che aderiscono alla guerra a Trump dovrebbero chiedersi che cosa sarebbe l’America se Trump avesse perso le elezioni. Sarebbe un paese in cui i confini aperti, la globalizzazione e i commerci liberi ma non equilibrati sono considerati inevitabili. Un paese in cui per la Corte Suprema sarebbero stati nominati degli estremisti liberal (dall’ex ministro della Giustizia di Obama, Loretta Lynch, alla senatrice Warren). Un paese in cui gli elettori di Trump (operai, artigiani, bianchi poveri) sarebbero considerati dei “miserabili” (parola di Hillary), che “si attaccano” alle pistole e alla Bibbia (parola di Obama). Un paese in cui, per ottenere un mutuo o per entrare al college, i bianchi sono meno favoriti rispetto ai neri o ad altre comunità. In cui, verso l’estero, i soprusi commerciali e i furti di tecnologia che hanno arricchito la Cina verrebbero considerati accettabili in nome di una futura democrazia cinese, mai divenuta reale; in cui le turpi concessioni all’Iran dell’accordo obamiamo sul nucleare sarebbero definite come alternativa alla guerra; in cui l’ostilità verso Israele e le sovvenzioni indirette a gruppi che vogliono la distruzione di Israele, come Hamas, sarebbero la norma. E molto d’altro.

Dalle elezioni del 2016 in poi, in America le imprese, piccole e grandi, hanno aperto 3,6 milioni di nuovi posti di lavoro. Imprese importanti stanno riportando le fabbriche dall’estero in patria. Milioni di cittadini hanno cessato di richiedere i “buoni pasto” federali, perché sono usciti dall’indigenza. La spinta principale al rilancio economico è venuta dalla riforma fiscale, che ha avuto un successo spettacolare. Poi vi sono state le centinaia di regolamenti burocratici cancellati da Trump. È stato cancellato, anche, il vincolo più ingombrante della Obamacare, cioè l’obbligo a contrarre assicurazioni sanitarie standard, dai costi altissimi e crescenti. Che si potesse arrivare alla piena occupazione (oggi in America non lavora solo chi non vuole lavorare), o a un aumento del PIL sopra il 3% annuo, o all’indipendenza energetica, era impensabile nell’ottica assistenzialista e globalista degli anni obamiani, quanto lo era impugnare le pratiche commerciali predatorie della Cina, muovere l’ambasciata USA a Gerusalemme, uscire dall’accordo con l’Iran, o provare a controllare i confini di terra.

I politici Repubblicani che non sostengono Trump e il suo governo dovrebbero  chiedersi chi, se non Trump, poteva dare una voce all’America di provincia e rurale, e vincere in Wisconsin, o in Pennsylvania, o in Michigan, dopo che otto anni di politiche obamiane avevano diviso la nazione tra città ricche e viziate, per lo più sulle due coste, e regioni industriali, o agricole, o minerarie, impoverite e trascurate. La rivolta di tali regioni ha portato Trump alla Casa Bianca. I neri che votavano al 94% per Obama, o gli ispanici, che hanno votato all’82% per Hillary, dovrebbero prendere atto che, con Trump, la disoccupazione tra i neri e tra gli ispanici è a un minimo storico. Se riuscissero a mitigare la grave russofobia che li condiziona, gli “esperti” di politica estera dovrebbero chiedersi chi, se non Trump, poteva con qualche successo richiamare alla realtà di oneri condivisi la NATO e l’Europa, o poteva mettere fine a un quarto di secolo di accordi sbilanciati con il Messico e il Canada (NAFTA), o poteva muoversi in concreto per arginare l’arricchimento aggressivo e le politiche espansioniste della Cina. Non potevano farlo il globalista Jeb Bush, né il gentleman Mitt Romney.

Se agisce con cautela pragmatica, se tiene conto delle alleanze e se conserva chiarezza riguardo alle minacce geo-strategiche (per lo più la Cina), il nazionalismo economico di Trump può aprire una nuova era americana. La sua visione di populismo conservatore andrà oltre la sua presidenza. Il modello Repubblicano dei Bush, costruito sui confini aperti, su accordi commerciali perdenti e interventi militari senza fine, è decaduto. A dichiararlo tale sono gli elettori di Trump, che hanno pagato, anche con la vita, per le scelte “umanitarie” di esportazione della democrazia, o che subiscono l’urto, economico e sociale, dell’accoglienza di immigrati in grandi numeri. L’America profonda è stanca dei fallimenti del globalismo, come è stanca di combattere le guerre civili di altri popoli. Il populismo conservatore, come i programmi di Trump, hanno un fondamento di solido senso comune. Il trumpismo è una catarsi americana. Ma non per questo è maggioritario in termini elettorali, in una società condizionata da un’immigrazione senza freni, da vizi radicati e da centri di potere, anche mediatico, ostili al cambiamento.

L’America è un paese diviso. La rivolta dell’America profonda è avversata con ogni mezzo in circa metà della società americana. Uno schieramento che va dall’estrema sinistra politica a noti finanzieri, e che si serve come portavoce dei media più diffusi, è disposto a tutto per rimuovere Trump e per fermare i programmi del suo governo. Nessuno strumento è escluso: dalle calunnie ai suggerimenti di assassinare agenti di confine, agenti di polizia e dell’agenzia ICE; dai linciaggi mediatici dei collaboratori di Trump all’attivismo di giudici partigiani e indottrinati; e, nell’estate 2018, alla copertura scandalosa fornita dai media ostili a Trump a personaggi ai vertici della Giustizia e dell’intelligence di Obama (Brennan, Clapper, Ohr, Comey ed altri) che hanno commesso illeciti per ostacolare Trump: copertura che ha lo scopo di impedire che le loro malefatte vengano pubblicizzate e perseguite.

Il nuovo tribalismo della sinistra Democratica divide la società in blocchi etnici, e con le politiche immigratorie e il welfare si assicura l’adesione dei nuovi elettori. Un partito Democratico che aveva gonfiato il Watergate fino alla soglia dell’impeachment di Nixon, oggi boicotta il tentativo della Commissione intelligence della Camera di portare alla luce le gravi, forse criminali, azioni che hanno reso possibile la truffa dell’indagine del procuratore speciale Mueller. Il partito Democratico di John Kennedy o dei Blue Democrats, vicini al mondo delle imprese, non esiste più. Oggi quel partito è un’associazione di finto progressismo, di difesa dello status quo, di connivenza con lo “stato profondo” washingtoniano, di politiche legate all’identità degli elettori, per cui chi è nero, o chi è ispanico, o chi è un dipendente statale o un residente dei suburbi metropolitani, deve votare Democratico per conservare i privilegi.

In America, come peraltro in Europa, i liberal, cioè la sinistra, sono gli autoproclamati guardiani delle libertà civili. Eppure essi non denunciano le invettive e le minacce dirette a chiunque sostenga Trump o lavori per lui. Minacce e aggressioni avvengono in luoghi pubblici, nei campus universitari, sui media. Il livello di odio organizzato nei confronti di Trump va oltre quanto sia mai accaduto nella storia americana (anche Lincoln fu odiato, ma vi era una guerra dichiarata in corso). Sulle reti TV, con l’eccezione di Fox News, attaccare Trump è un esercizio eseguito con furore. Odio e incitazione alla violenza vengono consentiti. Come accadeva nell’URSS e come accade in Cina, le calunnie con lo scopo di costringere al silenzio colpiscono le voci che sostengono Trump. Il mobbing, cioè le molestie organizzate e mafiose, è la regola. I social media aggiungono combustibile. La violenza è dietro l’angolo. Un anno fa, uno squilibrato ferì gravemente il Repubblicano Scalise. Di recente esponenti del governo Trump (Kirstjen Nielsen), o la portavoce Sarah Sanders, o figure pubbliche vicine ai conservatori (Pam Bondi), sono andati incontro ad aggressioni in luoghi pubblici. Un attore di Hollywood ha suggerito di sequestrare i figli di Sarah Sanders, ed è rimasto impunito, benché abbia commesso un crimine. Ivanka Trump è oggetto di insulti spregevoli. Nel quartiere di Washington dove abita Stephen Miller, che lavora con Trump alla Casa Bianca, si sono trovati dei manifesti in cui Miller è “wanted”, come un criminale che deve essere catturato. Chi combatte Trump ha licenza di intimidire, di calunniare. In vista delle elezioni di novembre, un obiettivo immediato è di rendere difficile per un conservatore il parlare in pubblico: per esempio in una riunione municipale, o in un campus universitario.

Le molestie (harassment) e le calunnie (in una orrenda versione, aggiornata e corrotta, della licenza di calunniare denunciata da Nathaniel Hawthorne in La lettera scarlatta) non vengono da una frangia estrema. Esse sono incoraggiate da politici ai vertici del partito Democratico (Booker, Walters). In eventi a cui partecipa la deputata nera Maxine Walters, accade che venga bruciata la bandiera americana. Accade a New York o Los Angeles, non a Teheran. Chi odia l’America è arrabbiato perché Trump ottiene risultati e il paese è in buone condizioni economiche. I Democratici e i loro media reagiscono con l’unico copione che conoscono, ripreso ogni ciclo elettorale, cioè le accuse ai conservatori, e adesso ai sostenitori di Trump, di essere razzisti, suprematisti bianchi, misogeni, xenofobi. Il dogmatismo ideologico della sinistra ha raggiunto livelli spregevoli con la distruzione di lapidi di significato storico e con la rimozione da luoghi pubblici di statue di figure storiche (il generale confederato Robert Lee, George Washington, Thomas Jefferson); e anche con violazioni teppistiche alle loro immagini. Dwight Eisenhower, un presidente che inviò l’esercito in Arkansas per imporre la fine della segregazione dei neri, teneva nel suo studio un ritratto di Robert Lee. Oggi le immagini di Lee sono oggetto di un’abbietta contestazione. Di recente in Maryland (in un Maryland dove interi quartieri di Baltimora sono controllati da bande di neri, spacciatori di droga) è andata rimossa una croce di pietra che rievoca i caduti nelle due guerre mondiali. Da sempre rimuovere la storia è più facile che comprenderla. Nella guerra alle memorie storiche vi è odio verso ciò che il paese è arrivato storicamente a rappresentare. L’ipocrisia e la stolta ripetizione di luoghi comuni antiamericani, supportate da note figure mediatiche e anche professorali (Noam Chomsky è il caso di odio patologico e di menzogna dalla cattedra), o da Hollywood, o da finanzieri equivoci come George Soros e il miliardario “verde” Tom Steyer, sono divenute l’acido in cui dissolvere la cultura nazionale. La guerra alla storia dell’America da parte di chi ha come obiettivo la “diversità” corrompe la fonte dell’identità nazionale. Piccoli stati come il New Hampshire, o distretti rurali (come il 2° distretto del Maine), dove il 90% della popolazione è bianca, vanno incontro ad accuse di non applicare la “diversità”, e ne sono condizionati. Peraltro la diversità è ricercata in tutto, tranne che nel pensiero e nelle opinioni, dove i nemici di Trump e dell’America perseguono il massimalismo e l’intolleranza.

La guerra civile – politica e sociale, anche se non militare – in corso in America non è un’opposizione legittima a un governo liberamente eletto. Non è legittimo, per esempio, chiedere, come fanno noti politici Democratici (la senatrice Warren, l’impresentabile Pelosi), di abolire l’agenzia federale ICE, che combatte le bande di immigrati responsabili di crimini ed è incaricata della loro espulsione. Alle parole di quei politici seguono le minacce personali verso gli agenti dell’ICE, come verso gli agenti delle pattuglie di confine, in nome di un’immigrazione senza freni e distruttiva. L’atmosfera di guerra civile rende molto difficile punire la corruzione, di cui ormai siamo certi, ai vertici della Giustizia, dell’FBI e della CIA nel governo Obama. Corruzione che ha reso possibile la nomina del procuratore speciale Mueller e ne mantiene in piedi l’indagine, benché squalificata. Il vice ministro della Giustizia Rosenstein non ha detto la verità in Congresso, ha autorizzato la sorveglianza di alcuni collaboratori di Trump sulla base di un dossier di accuse false e costruite con intento fraudolento, ha nominato Mueller in accordo con chi voleva destabilizzare il governo Trump, e più di recente ha annunciato futili accuse verso agenti del GRU russo (lo spionaggio ex KGB), tre giorni prima del summit tra Putin e Trump, per recare danno ai possibili risultati dell’incontro. Eppure Rosenstein è ancora al suo posto, come lo sono rimasti per anni i due ministri della Giustizia di Obama (Holder e la Lynch), benché essi fossero al servizio di un’ideologia liberal e garantista, e non della nazione americana. È lecito supporre che Rosenstein ostacoli la consegna dei documenti richiesti dalla Commissione intelligence della Camera con lo scopo di nascondere prove incriminanti per i vertici della Giustizia e dell’FBI obamiani. A rendere difficile per Trump la decisione di licenziare Rosenstein (o lo stesso Mueller) è l’ostilità dei media, pronti a fare di quegli eventuali licenziamenti dei casi di “ostruzione della giustizia”.

 

Come Rosenstein, i Democratici vogliono guadagnare tempo, perché sperano di vincere le elezioni di novembre. Se essi arrivano a controllare la Camera, le prove di malefatte verranno eliminate – come sarebbe accaduto se Hillary avesse vinto le elezioni. Il sistema uscito dalla presidenza Obama era bacato: i vertici dell’FBI (Comey, McCabe) hanno mentito agli investigatori federali; il direttore dell’FBI, Comey, ha fatto arrivare alla stampa rapporti devianti, con lo scopo di promuovere la nomina di un procuratore speciale; i vertici dell’intelligence (Brennan, Clapper) hanno coperto le azioni illegali che hanno consentito la nomina di un procuratore speciale;  i vertici della giustizia (Lynch, Rosenstein) nell’ultima fase del governo Obama hanno autorizzato la presentazione ai giudici del tribunale FISA, forse a loro volta partigiani, di un dossier falso con lo scopo di ottenere la sorveglianza di un presidente regolarmente eletto; il procuratore speciale Mueller ha utilizzato 13 avvocati (adesso divenuti 17) vicini ai Democratici e in qualche caso loro finanziatori; ed altro ancora. Dopo un anno e mezzo di indagini, Mueller, il grande inquisitore, si è ridotto a condannare per attività hacker 12 agenti dello spionaggio russo, che non compariranno mai davanti a un giudice americano perché non verranno mai estradati; o si è ridotto a processare un ex collaboratore di Trump, Paul Manafort, per reati fiscali del 2005 che non hanno nulla a che fare con l’indagine “russa”, e che non sono di competenza di un procuratore speciale. Nei confronti di Manafort e di altri ex collaboratori di Trump, gli avvocati di Mueller, con grave sopruso, hanno esercitato pressioni per estorcere dichiarazioni che compromettano il presidente. Per pagare le spese legali, Mike Flynn ha dovuto vendere la casa di proprietà; Manafort è stato incarcerato (perché non ha niente da dare a Mueller, niente che serva a compromettere Trump); l’avvocato di Trump, Cohen, ha reso pubblici nastri di conversazioni con Trump, quando questi era solo un businessman, registrate all’insaputa del suo cliente (mettendo fine, con tale scorrettezza, alla propria carriera legale). Invece, la difettosa procura di Mueller non ha levato accuse verso le illegalità emerse nel corso delle indagini, cioè quelle commesse, nell’ultima fase della presidenza Obama, dai vertici della Giustizia, della NSA, dell’FBI, della CIA: tutte con lo scopo di ostacolare, e poi delegittimare, il governo Trump.