Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Paolo Pellegrini

A 700 anni dalla morte di Dante, Verona, primo approdo del poeta dopo l’esilio da Firenze, celebra l’anniversario con il progetto Dante a Verona 1321-2021. Tra le molte iniziative in programma, una mostra diffusa fatta di storie e luoghi della città. In occasione del Dantedì sono in calendario per l’intera giornata eventi multidisciplinari e conferenze. Tra queste, il dialogo tra il dantista Zygmunt Baranski e il filologo Paolo Pellegrini, autore dello splendido Dante Alighieri. Una vita (Torino, Einaudi, 2021, pagine 258, euro 22). Pellegrini ha riassunto per «L’Osservatore Romano» il suo intervento.

«Dopo il lumicino da notte sul sepolcro del poeta, cosa ci manca altro, che i pasticcini alla Francesca, i panciotti all’Alighieri, e gli stivaletti alla Beatrice?». All’indomani delle celebrazioni dantesche del 1900, Giuseppe Prezzolini interveniva con piglio battagliero prendendo di mira la moda del dantismo dilagante, e così facendo finiva con l’accomunare in un sol fascio l’erba buona e quella cattiva: il dantismo serio e quello chiacchierone. Carlo Dionisotti ci ha raccontato in un saggio memorabile (Varia fortuna di Dante, 1966) come si sia svolta la parabola degli studi danteschi dal tardo Settecento al secondo dopoguerra, e ci ha insegnato come, di volta in volta, la figura e l’opera di Dante siano servite alle necessità storico-politiche del momento.

Il nome di Dante cominciò a emergere in tutto il suo rilievo in epoca risorgimentale: «L’impresa dell’indipendenza e dell’unità nazionale richiedeva il mito di un poeta che ispirasse i politici, gli uomini responsabili della cospirazione e dell’azione, e che concordemente ispirasse la nazione tutta». Nel 1826 un importante volume dello storico Carlo Troya giudicò la Commedia un «serbatoio delle vendette politiche» del poeta: questa lettura intravedeva, oltre la cortina delle faziosità comunali, il lento riemergere dello spirito della nazione dal torpore del Medioevo. Di lì a poco (1839) Cesare Balbo pubblicò la prima biografia di stampo moderno che restituiva invece l’immagine di un Dante neoguelfo, profeta della futura nazione guidata dalla Chiesa. Questo filone si spense con l’anniversario del 1865. La neonata università italiana imboccò l’impervio sentiero delle scienze linguistiche e filologiche penetrate nel tessuto accademico grazie alla guida dei maestri tedeschi: figure come Pio Rajna, Ernesto Giacomo Parodi, Michele Barbi innervarono gli studi danteschi di nuova linfa portandoli a un grado di maturazione mai visto prima. La giovane scuola storica di Francesco Novati e Rodolfo Renier li sostenne, dalle pagine del «Giornale storico della letteratura italiana», con l’ausilio efficace dell’erudizione.

E così gli italiani da allievi divennero presto maestri: il Dante di Adolfo Bartoli (1884) e, più tardi, quello di Nicola Zingarelli (1904) furono gli esiti migliori di questa temperie di studi e mostrarono come e con quali strumenti occorresse avvicinarsi al poeta. Ma con Zingarelli ci si avviava ormai al tramonto.

La china inesorabile che conduceva la nazione verso il primo conflitto mondiale chiamò ancora una volta in causa, come era da attendersi, il sommo poeta: «Ai tempi del Carducci — ci guida sempre Dionisotti — Dante s’era fermato, aspettando, a Trento. Ora l’autorità profetica del suo poema veniva adottata per legittimare le nuove frontiere strategiche del Brennero e del Quarnaro». Dante rischiò nuovamente la ribalta come vate nazionale. A valle delle celebrazioni del 1921, l’avvento del fascismo scelse invece il mito della Roma imperiale e il sommo poeta fu, per così dire, risparmiato.

Nel contempo l’idealismo crociano inaugurò un approccio del tutto diverso, e per molti aspetti antitetico, alla grande poesia dantesca (La poesia di Dante di Croce è del 1921), che mandava in soffitta la vecchia accademia italiana e promuoveva sulle nuove cattedre i nipotini della critica estetica. Filologia ed erudizione scelsero l’isolamento, il che per certi aspetti garantì la preservazione di un metodo di lavoro. Tra lo Zingarelli e le Vite di Dante di Umberto Cosmo (1930) e del Barbi (1933), si registrano quasi solo contributi mirati: su tutti il Codice diplomatico dantesco di Piattoli (1940), voluto strenuamente dal Barbi.

Nel secondo dopoguerra la filologia rifiorì grazie a figure di primo piano come Contini, Billanovich, Mazzoni, Ageno, e ne trassero grande giovamento anche gli studi danteschi. Tra i frutti più importanti ci furono l’edizione critica della Commedia (1966-1967) e la Vita di Dante (1978), entrambe a firma di Giorgio Petrocchi. Petrocchi mise in campo una conoscenza capillare sia dei documenti sia delle opere del poeta, frutto di un impegno ventennale quasi esclusivo, e ne restituì un ritratto minuzioso e preciso. La partita sembrava chiusa.

Per riaprire i giochi si dovette attendere una trentina d’anni, quando due bei volumi di Umberto Carpi prima (La nobiltà di Dante, 2005) e la biografia romanzata di Marco Santagata poi (Dante. Il romanzo della sua vita, 2012) rimisero in discussione quanto pareva acquisito. Riesaminando fonti e documenti, Carpi e Santagata restituivano l’immagine di un Dante immerso nella temperie del Medioevo, invischiato nelle lotte tra fazioni politiche e soggetto agli inevitabili compromessi cui tutti i contemporanei impegnati come lui erano, bene o male, costretti. I riflessi di queste passioni finivano per condizionare la stesura delle sue opere e in particolare della Commedia, reinterpretata come un instant book in cui l’autore registrava oscillazioni e orientamenti politico-ideologici del momento: in base a questi condannava o salvava. Insomma, in modo molto più raffinato e documentato, si tornava alle radici. Questa rilettura che cammina sul ciglio di una rischiosa interpretazione deterministica, è stata accolta benevolmente da alcuni storici e filosofi del medioevo che — per ragioni ovvie — hanno visto ampliarsi a dismisura il perimetro di azione. E se un Girolamo Arnaldi teneva sempre a delimitare, nei suoi interventi, il proprio campo di competenza e quello dei cosiddetti dantisti; più di recente si è assistito a un processo osmotico che accanto a frutti eccellenti ha prodotto più di un fraintendimento. Le ricerche sul contesto storico sono fondamentali, ma non bisogna dimenticare che Dante, oltre a essere uomo profondamente immerso nel Medioevo fu soprattutto poeta e letterato sommo. Dante lesse e interpretò la realtà che lo circondava rielaborandola e restituendola sotto forma di poema non sotto forma di cronaca. È un insegnamento che Gianfranco Contini ci ha affidato con l’aureo volumetto Un’idea di Dante e che bisogna sempre tenere presente.