L’atmosfera, nella testé proclamata capitale del Regno, era di grande fermento, grande vivacità. Da Nord e da Sud era un continuo via vai di personaggi famosi e meno famosi, di giovani e meno giovani che si apprestavano a occupare i nuovi uffici politici (e di conseguenza burocratici) allestiti per avviare, ex novo, la macchina istituzionale dell’Italia unita. Così si presentava la Roma preumbertina del XIX secolo.

Anni Settanta. In Campidoglio siede Pietro Venturi, avvocato, sotto il cui mandato hanno luogo il rifacimento delle anse del Tevere (compresa la viabilità su strada) e la bonifica di interi agglomerati del vecchio centro storico come Borgo, Parione, Regola e Campo Marzio. Una bonifica – o meglio una disinfestazione – per difendere la città dalle inondazioni del Tevere e dal diffondersi della malaria. In Parlamento, che ha sede presso Palazzo Braschi, la Destra Storica si appresta a concedere il passo alla Sinistra di Depretis e a gran parte dell’entourage garibaldino – vedi i Nicotera, i Crispi, gli Zanardelli, i Cairoli – fresco reduce dalle primavere risorgimentali. E tra i caffè del Corso e Piazza del Popolo, nei quali si respira un’aria nuova, quasi mondana, girano copiosi i giornali, i giornalini, gli opuscoli e i fogli, che si stanno raddoppiando e ne escono ogni giorno di nuovi. Gli strilloni hanno sotto braccio Il Tribuno, Il Campidoglio, La Raspa, Il Ciceruacchio, Il Don Pirlone e il Don Pirloncino, tanto per citarne alcuni. Tra i molti, dal 1874 comincia a essere pubblicato anche La Capitale, che prende sede in Via delle Coppelle 35, presso Palazzo Baldassini (per capirci, dove oggi si trova l’Istituto Don Luigi Sturzo, a due passi dal Pantheon). Il suo editore, un distinto signore proveniente dalla Milano bene, è un ex deputato radicale eletto nel collegio di Pizzighettone, al momento di professione giornalista. Si chiama Raffaele Sonzogno, ed è il giovane rampollo della stirpe degli stampatori che dal 1818 sono cresciuti sino a divenire una vera e propria industria libraria, giornalistica e musicale. 

Solo poche settimane di vita e La Capitale è già oggetto di querele poiché distintosi per la diffusione di notizie di gossip e per non essere proprio, per così dire, simpatizzante del movimento patriottico facente capo al generale Giuseppe Garibaldi. Ma ha un buon successo. Tra le polemiche più “rumorose”, quella di aver creato motivi di scontro ideologico tra Menotti Garibaldi e il padre. Padre che guarda caso, risiede anche lui a Via delle Coppelle 35, dove, di quando in quando, si organizzano incontri e riunioni politiche tricolori incentrate sull’amor patrio e sui tempi che furono.

Motivo più frequente delle cause giudiziarie che investono La Capitale: diffamazione. Per difendersi, Sonzogno paga profumatamente avvocati e avvocatucci, carte e scartoffie, e per le casse di un giovane giornale non è buon segno. Tuttavia, le cose si mettono male anche e soprattutto in un altro senso. La moglie dell’editore, una volta approdata a Roma la coppia, ha una relazione extra-coniugale e dopo poche settimane rimane incinta. Partono le denunce – allora si parlava di adulterio – quando si scopre che a soffiare la consorte al Sonzogno è stato l’onorevole Giuseppe Luciani, deputato della maggioranza parlamentare, per altro vecchia conoscenza del giovane milanese. Tra un’accusa e un’altra, mentre la cosa diventa pubblica e il chiacchiericcio (specie femminile) si sparge a macchia d’olio, Sonzogno “sguinzaglia” la redazione de La Capitale contro il Luciani; il deputato viene demolito e sputtanato mediante una campagna di stampa che definire denigratoria è un eufemismo. La quale campagna provoca a sua volta uno scandalo che tracima nel moralismo ineffabile di una società per certi versi ancora pudica e conservatrice.

Dall’altra parte, cioè da parte del Luciani e del suo staff, vengono fatte circolare notizie secondo cui sembra che pochi anni prima, Sonzogno, allora residente in Lombardia, fosse un giornalista al soldo degli Asburgo, e automaticamente un potenziale nemico dell’Italia. La “guerra” delle voci e del discredito continua per giorni, sino al fatidico 6 febbraio del 1875, quando in piena notte, probabilmente per buttare giù un articolo o un editoriale, il giovane editore si reca a Via delle Coppelle, in redazione. Lo trovano il mattino dopo nel suo ufficio in una pozza di sangue, ucciso con 13 coltellate. Accanto a Raffaele, esanime, un tizio, immobile e imbambolato, tale Pio Frezza, soprannominato “Spaghetto”, già passato alle cronache perché pregiudicato e fanatico militante garibaldino. Un tipo focoso, non troppo intelligente, men che meno raccomandabile. Proprio quello che ci voleva. 

A seguito delle dichiarazioni dell’assassino – che a torto o a ragione tira in ballo mezzo Parlamento –  Luciani è accusato come mandante dell’omicidio, e il Frezza come esecutore materiale dietro il pagamento hic et nunc di un corrispettivo (cinquemila lire). Le indagini appurano che il delinquente è stato sobillato contro il povero Sonzogno perché fatto passare, quest’ultimo, alla stregua di un congiurato antigaribaldino. Roma è scossa. 

Autunno 1875. Al processo furono chiamati a deporre e testimoniare Felice Cavallotti, Menotti Garibaldi, Costanzo Chauvet e altri del gruppo parlamentare della Sinistra Storica. La alte stanze della politica italiana tremarono per qualche ora, facendo pensare a una serie di dimissioni di massa, ma i capi d’accusa e le relative condanne (all’ergastolo) misero a tacere l’intera vicenda archiviandola come una storia di corna e ripicche. Per la cronaca: pochi anni dopo, più precisamente l’11 marzo 1882, sempre in Via delle Coppelle 35, nella sede de Il Monitore, si uccise il direttore Fedele Albanese, strozzato dai debiti.