Quell’autunno, gli alti quadri di governo italiani non furono affatto soddisfatti delle condizioni di pace bilaterali siglate dagli Alleati della Triplice a seguito della fine del conflitto 1914-1918. Non fu per nulla convinto lo Stato Maggiore dell’esercito, il quale avrebbe voluto prolungare l’avanzata a Nord-Est. Apparve a sua volta perplesso il premier Vittorio Emanuele Orlando, responsabile in prima persona della sorte dei civili interessati (e provati) da quattro anni di sanguinosa guerra. Si trattava di centinaia di migliaia di connazionali che avevano visto le proprie terre trasformarsi in un enorme campo di battaglia.

Dopo le trattative di Villa Giusti (1, 2 e 3 novembre 1918), avvenute nella proprietà veneta del conte Vettor Giusti del Giardino, luogo in cui Italia e Austria-Ungheria firmarono l’armistizio, rimanevano i problemi degli sfollati e del grande movimento prodotto dal deflusso dei reduci dal fronte. Ma soprattutto, restava inalterata la condizione dei territori della Venezia Giulia, già occupati dagli austriaci e poi sgomberati dopo il cessate il fuoco.
Le relazioni diplomatiche peggiorarono di ora in ora, sino a raggiungere un punto di non ritorno quando il tema centrale fu rappresentato dalle riparazioni e dai debiti di guerra. Nell’aprile del ’19 Orlando e Sonnino, contrariati, lasciarono in fretta e furia Versailles, sede della Conferenza di Pace tra le potenze ex-belligeranti. Spina nel fianco di Roma: la mancata acquisizione di Fiume, abitata per la maggioranza da italiani e fortemente rivendicata sin dai mesi che avevano preceduto la fine del conflitto. Una “cessione” geopolitica che il presidente statunitense Wilson non intendeva nel modo più assoluto avallare e per questo era intervenuto in sede separata.

Nacque così il mito della “vittoria mutilata”, una vicenda che Gabriele D’Annunzio esacerbò e politicizzò sino a provocare – sostenuto da poche centinaia di reduci e giovani irredentisti – quegli scontri passati alle cronache come “i vespri fiumani”, durati dal 29 giugno al 6 luglio 1919 e culminati con l’abbattimento di una decina di militari francesi di stanza in una zona considerata neutrale. A sostegno dell’iniziativa irredentista, le elezioni municipali indette per il 26 ottobre avevano fatto riscontrare la schiacciante vittoria della lista di Riccardo Gigante (circa l’80% dei voti), dichiaratamente favorevole all’annessione della cittadina all’Italia.

L’azione più clamorosa fu compiuta tuttavia all’alba del 12 settembre, quando, dopo una sosta a Ronchi dei Legionari, fiancheggiato da alcuni drappelli di militari (soprattutto granatieri e bersaglieri), D’Annunzio tornò a Fiume e proclamò la sua annessione all’Italia. Un’occupazione promessa ante litteram per motivi di eugenetica realizzata contro la volontà della corona e del governo, i quali decisero di attendere. Un’attesa caratterizzata da una serie di messaggi con cui fu intimato al Vate che avrebbero potuto esserci gravi conseguenze. A seguito del ritorno al governo dell’anziano Giolitti, infatti, avvenuto nel giugno 1920, l’atteggiamento del Regno nei confronti della autoproclamata Reggenza Italiana del Carnaro si fece più deciso; la risposta (dal sapore di un avvertimento) alla “Santa Entrata” operata da D’Annunzio, del tutto ufficiale, fu data il 12 novembre, quando Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, che decretava Fiume libera e indipendente, previa l’istituzione di un’Assemblea Costituente legittimata dai paesi contraenti.

Passarono pochi giorni ed ebbe luogo quello che lo stesso D’Annunzio celebrò come “il Natale di sangue”, ovvero l’epilogo di una vicenda delicata quanto complessa che aveva attirato l’attenzione internazionale. Il 24 dicembre, Vigilia di Natale, la Andrea Doria bombardò Fiume costringendo alla resa in meno di una settimana il corpo d’occupazione ritenuto illegittimo. Il 31 dicembre, proprio a Capodanno, fu redatta la Carta che sanciva la città di Fiume “Stato libero e autonomo” e la sottoponeva al controllo dell’esercito italiano.
In conclusione, una curiosità. Il nascente movimento dei Fasci di Combattimento, con una nota, condannò l’azione dell’esercito regio giudicandola arbitraria e inopportuna. Solo un unico dirigente si dissociò, dichiarandosi contrario alla stesura del documento : Benito Mussolini.