Zingaretti imita D’Alema 20 anni dopo: può essere lui il leader del PD?

Nel centrosinistra, tutto sommato, spetta proprio ai cattolici richiamare i valori della coerenza e del rigore, ponendo freno alla seduzione del potere e ai vizi del facile pragmatismo.

Nel corso di un dibattito alla Festa dell’Unità di Roma, Ettore Rosato aveva sollevato giorni fa un dubbio pesante come un macigno a proposito della candidatura di Zingaretti a segretario del Pd. Non avendo una maggioranza in consiglio regionale, egli si avventurava su un terreno minato, succube non solo come presidente della Regione ma anche come possibile leader di partito dei condizionamenti esterni: ora del M5S, ora di Forza Italia. Senonché, in queste ore sopraggiunge una novità inattesa, frutto di accordi ancora generici, che consiste nella decisione di due transfughi del centrodestra di schierarsi con Zingaretti. Con ciò viene alla luce una vera maggioranza in Consiglio regionale, e dunque decade l’obiezione di Rosato.

Il problema, tuttavia, è che questa connessione tra livello regionale e nazionale, tra un fattore istituzionale e uno eminentemente politico, se cade nella forma proposta da Rosato, invece si ripropone in maniera diversa e più grave. Zingaretti, infatti, compie un’operazione che assomiglia, a distanza di 20 anni, alla operazione di D’Alema alla fine del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Ds riuscì a subentrare a Palazzo Chigi, formando un nuovo esecutivo, grazie all’apporto dell’Udr di Clemente Mastella, sostenuto nella sua fuoriuscita dai ranghi del centrodestra dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Non fu un’operazione limpida agli occhi dei più accaniti assertori della purezza dell’Ulivo. Soprattutto Veltroni prese le distanze: anche dopo tanto tempo avrebbe ripetuto che quel tipo di maggioranza fortuita, non suffragata dal voto degli elettori e percepita conseguentemente come un’astuzia di potere, contro la politica di Prodi, declassava fin da subito la nomina di D’Alema  a congiura di Palazzo.

Con tutto il rispetto che si deve alle persone, la logica che porta Cavallari e Cangemi – i transfughi ex berlusconiani – ad affiancarsi alla coalizione di centrosinistra non ha la stessa qualità del vecchio progetto dell’Udr. Cossiga e Mastella si dichiararono disponibili a compiere un gesto che spingeva fino alle estreme conseguenze  la chiusura, avvenuta con il crollo del Muro di Berlino (1989), del lungo ciclo post-bellico della guerra fredda. D’Alema a Palazzo Chigi voleva rappresentare questa ultima e conclusiva legittimazione lungo il processo di completa stabilizzazione democratica del Paese. Alla Pisana, si parva licet, non si compie in questo scampolo di politica pre-feriale nulla di paragonabile, vista la mancanza di una sia pur minima motivazione ideale e morale nell’apertura pro-Zingaretti dei due esponenti regionali, nati e cresciuti nell’orbita dell’universo berlusconiano.

Ieri, su questo giornale online, Romano Contromano – uno pseudonimo? – stilava un giudizio molto duro: l’accordo siglato da Zingaretti non può che essere classificato se non come un esempio di trasformismo bell’e buono. In effetti il passaggio da destra a sinistra, con l’allestimento in piena corsa di una maggioranza consiliare a sostegno di Zingaretti, dopo che le elezioni ne avevano precluso la possibilità in base al riparto dei seggi, non sembra alimentato da una pur pallida indicazione strategica. Certo, il governo regionale esce dal perimetro della incertezza e quindi della instabilità; e certo, di poi,  Zingaretti non ha più remore di fronte ai suoi critici, dediti a escogitare l’algoritmo segreto per bloccare la sua candidatura alla guida del Nazareno; ma certo, infine, questo gesto così emblematico che segna l’assorbimento della politica di Zingaretti nel pragmatismo di stile vetero-dalemiano non assegna l’aureola dell’uomo nuovo e del politico diverso al candidato più legato all’immagine della “sinistra che vince”.

I dubbi crescono, non si allentano. Se così è, con tale dose di arido manovrismo, la sinistra può anche vincere, magari con la sapienza chi sa gestire gli esiti delle elezioni, ben attivando le pratiche del consenso tra le mura delle istituzioni, ma in fondo rimane ancora per un distillato di astuzia poco promettente una sinistra che non convince. Strano che i cattolici di Sant’Egidio, collocati in maggioranza alla Regione, non se ne avvedano. La loro parola potrebbe aiutare a correggere una linea che non suscita reazioni solo per il clima da vacanze imminenti. Nel centrosinistra, tutto sommato, spetta proprio ai cattolici richiamare i valori della coerenza e del rigore, ponendo freno alla seduzione del potere e ai vizi del facile pragmatismo.