Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Elsa Koester

Quando ero piccola, nessuno era tedesco. Nessuno. Sicuramente non io, figlia di una francese pieds-noirs, tornata quattordicenne dalla Tunisia in Francia, e di un frisone, il cui nonno era emigrato a New York. Nemmeno i miei compagni di scuola, con genitori arrivati dalla Polonia o dalla Grecia, erano tedeschi. E nemmeno chi aveva i genitori che vivevano in Frisia da generazioni era tedesco ma, per l’appunto, frisone. Per noi, neppure gli altri in Germania erano tedeschi. Piuttosto bavaresi. O svevi. O berlinesi. O tedeschi dell’Est: ok, loro, i tedeschi orientali, forse erano un po’ tedeschi… ma i tedeschi dell’Ovest no. Nella nostra mente i tedeschi dell’Ovest nemmeno esistevano.

Questo accadeva negli anni Novanta. E anche oggi a Neukölln, il quartiere di Berlino dove vivo, nessuno è tedesco, da sempre. Chi vive qui mangia lahmacun o pizza o humus, beve ayran, è berlinese, di Neukölln o di Kreuzberg, oppure svevo o bavarese. Noi non siamo tedeschi. Non siamo mai stati tedeschi. Finché non sono accadute un paio di cose. Anzitutto Andi Brehme segnò contro l’Argentina a Roma nei Mondiali di calcio del 1990. Poi i neonazisti marciarono con mazze da baseball nelle strade delle piccole città della Germania orientale e la sinistra tedesca divenne antitedesca. Nel 2006, i Mondiali di calcio arrivarono in Germania e i tedeschi scoprirono il loro inno nazionale. Poi arrivò la giornalista Hengameh Yaghoobifarah. Cominciamo da lei.

Noi tedeschi non siamo mai stati tedeschi. Siamo berlinesi, di Neukölln o di Kreuzberg, oppure svevi o bavaresi

Hengameh Yaghoobifarah è una tedesco-iraniana di genere non binario, che tiene una rubrica su «Die Taz». La «Taz» è nata nel corso del movimento del Sessantotto e non è mai stata un quotidiano tedesco ma è sempre stata di sinistra. Nei suoi pezzi Yaghoobifarah si fa beffe delle Kartoffel, le patate, o Almans, come oggi vengono chiamati i tedeschi bianchi senza una provenienza migratoria da una prospettiva post-migrante. Scrive a volte in modo spiritoso, altre volte con rabbia, altre volte ancora in entrambi i modi. E lascia la sinistra tedesca di stucco. Scrive cose come: «Voi ci desiderate, ma non ci rispettate. Vi vedo. Siete penosi. Compratevi pure tutto l’humus e l’ayran che volete, ma non spacciatevi sui social media come se improvvisamente foste del gruppo sanguigno ayran. L’abbiamo capito: le vostre papille gustative si attivano con un po’ di kümmel, con vent’anni di ritardo, ma è già qualcosa. E adesso levatevi dalle palle». Bere l’ayran? Mangiare l’humus? Apprezzare il kümmel? E come può essere sbagliato, di punto in bianco? La crisi di identità, che le voci post-migranti scatenano nella sinistra tedesca, non potrebbe essere più grande. Da quando si sono imposte nei media, non ci sono solo migranti, dei quali si parla, ma anche essi parlano – già, di che cosa parlano? Dei tedeschi bianchi? Quelli dovremmo essere noi, da questa parte dello specchio?

Per capire come questa identità specchiata faccia male alla sinistra tedesca occorre immergersi nella storia di un’importante corrente della sinistra di queste parti: quella degli «antitedeschi» (antideutschen), nati ufficialmente nel 1990, con la riunificazione. Ma l’orientamento antinazionale della sinistra tedesca è stato definito sin dal 1945, vale a dire nella generazione nata dopo il 1945 e, cioè, nella generazione del Sessantotto. Non essere tedeschi era, dopo il Sessantotto, l’elemento più importante della formazione della sinistra liberale nella Germania occidentale. Mai più Auschwitz. Mai più fascismo. Mai più tedeschi. Lo sviluppo di un unico argomento. La bandiera nero-rosso-oro della Germania sventolava probabilmente sul palazzo del Parlamento della piccola città di Bonn – pur sempre divenuta capitale – altrimenti da nessuna altra parte. Nella Repubblica di Bonn la questione era il ridimensionamento della Germania.

Lo stesso valeva per le discussioni a tavola sulla Repubblica, quantomeno a casa mia. Se mio padre vedeva la bandiera tedesca, bofonchiava. Se per sbaglio accendeva la Tv e trovava una partita di calcio della Nazionale, emetteva un grugnito e la spegneva. C’è voluto un po’ prima che capissi che il problema non era il pallone. Ma la bandiera tedesca. L’orgoglio nazionale suscitava in mio padre una profonda avversione. Dove sono cresciuta, si storceva il naso di fronte alla bandiera della Germania. Con il Sessantotto ci si era lasciati l’orgoglio nazionale alle spalle e lo si era scambiato con la responsabilità: la responsabilità per il «mai più». Responsabilità per Israele, che nella sinistra tedesca divenne l’unica nazione che aveva il diritto legittimo di esistere in quanto nazionale, con la bandiera nazionale e con il nazionalismo.

Per la mia mamma francese essere tedesco equivaleva a un patologico sentimento di colpa. Così lo chiamava. Non voleva che io lo ereditassi, mi diceva che non dovevo farmi convincere nella scuola tedesca a portare la colpa per Auschwitz, che in fondo ero nata negli anni Ottanta, mon-Dieu, era il momento di farla finita.

Da mia madre ho ereditato il senso di colpa verso i tunisini: colpa postcoloniale. Da mio padre la colpa per Auschwitz.

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