L’attentato terroristico agli Uffizi, che la mafia siciliana organizzò maldestramente come strumento di pressione sul governo, rese chiaro che il problema mafioso riguardava tutto il Paese. Riportiamo uno stralcio dell’articolo pubblicato sulle pagine della rivista “Il Mulino”
Giovanni Gozzini
Quello che nella memoria pubblica è noto come attentato di via dei Georgofili a Firenze (all’una di notte del 27 maggio 1993) fu in realtà un attacco terroristico agli Uffizi, che la mafia siciliana organizzò come strumento di pressione nei confronti del governo. Ma che realizzò maldestramente, non conoscendo Firenze e sbagliando collocazione dell’autobomba. Le cinque vittime (tra cui Caterina, di 9 anni, e Nadia Nencioni, di nemmeno due mesi) erano, quindi, per i criminali, semplici danni collaterali nel quadro di una strategia che puntava alla rivincita, dopo che nel gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato la sentenza del cosiddetto «maxiprocesso», che condannava all’ergastolo in contumacia Riina e altri boss.
Si erano così susseguiti gli omicidi di Salvo Lima (marzo 1992) leader della corrente andreottiana della Democrazia cristiana in Sicilia, e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (maggio-luglio 1992), che avevano guidato l’inchiesta del processo. In seguito a quest’ultimo attentato, si era inasprito per i detenuti mafiosi il regime regolato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario: circa 500 detenuti vennero trasferiti nelle carceri di Asinara e Pianosa. Da questo momento per Cosa Nostra il nemico non si incarnava più soltanto negli oppositori diretti sul territorio, ossia le forze dell’ordine e i magistrati che li perseguivano in prima persona. Bensì «lo Stato» e le sue leggi, che andavano allora piegati attuando una escalation di azioni terroristiche su scala nazionale. L’arresto di Riina (gennaio 1993) complicò gli equilibri al vertice dell’organizzazione mafiosa e l’adozione della nuova strategia stragista avvenne solo al termine di un contrastato dibattito: si trattava, infatti, di un salto di qualità «politico» – uscire dal territorio siciliano per confrontarsi direttamente col potere centrale – senza precedenti nella storia di Cosa Nostra. Senza precedenti, d’altra parte, fu anche l’omelia pronunciata da papa Giovanni Paolo II ad Agrigento (9 maggio 1993) che si rivolse direttamente ai mafiosi: «Mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio».
Il risultato fu una sequenza ravvicinata di attentati che portarono a quello di via dei Georgofili. Il primo fu il fallito attentato al giornalista televisivo Maurizio Costanzo (14 maggio 1993), protagonista di diverse campagne contro Cosa Nostra. Il modus operandi era sempre lo stesso: auto rubata, caricata di esplosivo e posta nei dintorni di un luogo di esplicito valore simbolico (nella fattispecie gli studi romani dove si registrava la trasmissione di Costanzo). L’alto numero di feriti (24) e le lesioni ai palazzi circostanti dimostrano l’intento stragista: solo uno sbaglio fortuito (l’errata individuazione della macchina con a bordo Costanzo) non produsse un bilancio di sangue paragonabile a quello successivo di Firenze.
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