VITA «TITANICA» DI UN ORIGINALE PENSATORE. RILEGGENDO DANTE MAFFIA, «IL ROMANZO DI TOMMASO CAMPANELLA».

 

Si scopre in queste pagine lorrore della sofferenza imposta per volontà di uomini gretti e feroci, gli attori di un mondo volutamente fermo, che «non vuole camminare, che ha deciso di fermarsi e di marcire sulle cancrene e sulle muffe del pregiudizio e dellipocrisia», come Maffia fa dire al suo protagonista.

 

Paola Petrignani

 

Come giustamente scrive Corrado Calabrò, bisogna sfidare schemi e categorie per raccontare la storia di una vita “titanica” come quella di Tommaso Campanella. E Dante Maffia, l’autore de Il Romanzo di Tommaso Campanella (Rubbettino, 2006), tentando l’intentabile, ci riesce: forza lo schema, ricrea e elabora per raccontare l’esperienza dell’originale pensatore di Stilo (1568-1639), autore de La città del Sole, martoriato per le sue idee e i suoi atteggiamenti radicali, anch’essi, appunto, fuori dagli schemi.

 

Un’eterna sfida che gli costò più di ventisette anni di carcere e un vero e proprio accanimento da parte dell’Inquisizione. E quindi il martirio della fossa, lo spostamento in numerose celle, le torture del sonno e della veglia; l’orrore della sofferenza imposta per volontà di uomini gretti e feroci, gli attori di un mondo volutamente fermo, che «non vuole camminare, che ha deciso di fermarsi e di marcire sulle cancrene e sulle muffe del pregiudizio e dell’ipocrisia», come Maffia fa dire al suo protagonista.

 

Ma prima delle sozzure delle celle, l’autore ricostruisce il Giandomenico ragazzo (Tommaso è il nome scelto entrato in convento, a tredici anni: giovane eppure con una visione già ben chiara di sé: «una garanzia per la sua natura diffidente e, insieme, passionale»); quel giovane intelligentissimo nato in un povero paesino di una Calabria altrettanto povera, lasciata indietro, «bolgia dell’inferno che si è staccata ed è piombata giù o è salita dalle viscere della terra», ma che pure accoglie nel male della sua arretratezza personaggi come Catarinella e Geronimo, genitori amorevoli e fiduciosi, che fanno fatica a lasciare andare il figlio; oppure il suo primo mentore don Terentio, colui che capisce le potenzialità di questo ragazzo capace di imparare a memoria pagine e pagine di testi. Giandomenico sembra essere un pozzo di conoscenza già in tenera età, e la sua sete (lo spasmo dinamico del sapere) non si estinguerà mai — continuerà a esserci, imperterrita, per il resto della sua vita, illesa dai divieti dei priori e dai giudizi dei compagni che accolgono i suoi ragionamenti senza capirlo poiché «niente, non riesce a farsi intendere.

 

Chi ascolta ha difficoltà a seguirlo, è come se lui spostasse la portata di un fiume dal suo letto e la rovesciasse addosso agli altri». Per loro quel che dice è eresia, è come se bestemmiasse. L’asse, con Tommaso, si sposta: nessuna conoscenza è solo una per lui e con lui, né tanto meno è unica e univoca: mai il sapere sarà, fino alla fine, certezza assoluta. Tutto sarà messo in discussione. Di nuovo, è una dimensione, quella di Tommaso, troppo estrema e dinamica, incomprensibile per chi gli sta attorno. Troppi i nemici, e nemici sin da subito, ma alcuni riconosceranno il suo valore salvandolo dalla vergogna (primo fra tutto il cardinale Richelieu).

 

Maffia fa di tutto per contrapporre alle aberranti logiche di un secolo oscuro la dinamicità del pensiero campanelliano, accogliendolo fedelmente nei suoi discorsi e nelle suoi dialoghi con gli altri personaggi che compongono la narrazione. Una sete di conoscenza, quella dell’uomo Tommaso Campanella, che si accompagna alla volontà di sfogare pensieri e conoscenze sulla carta, di dare anima e corpo ad una vitalità di pensiero che riscopriamo, nel romanzo di Maffia, non essere stata mai, veramente, offesa.

 

Fonte: L’Osservatore Romano – 7 settembre 2022

(Qui riproposto per gentile concessione)