A 100 anni dalla fine della grande guerra: come cambiò la nostra società

Gli effetti politici e sociologici di una tragedia senza precedenti

La guerra mondiale del ’14-’18, conclusasi nel novembre di cento anni fa, non aveva solo “strappato” dalla vita civile e dalle loro abitudini quasi 70 milioni di uomini, ma aveva posto intere nazioni davanti a nuove realtà, talvolta durissime. Le ripercussioni del conflitto, infatti, non si limitarono esclusivamente alla perdita di vite (quasi 10.000.000 di caduti più il doppio tra feriti e mutilati) e alla distruzione che lo stesso aveva generato, ma coinvolsero tutta la società occidentale nella più grande esperienza di massa della storia dell’umanità.

L’area più colpita, come sappiamo, fu l’Europa (Italia inclusa), luogo in cui l’industria di guerra spostò dalle campagne alle città intere comunità, soprattutto donne e giovani non ancora in età di leva, mutandone radicalmente la quotidianità e la condizione sociale. La presenza al fronte, prolungata, di un alto numero di capi-famiglia mise in crisi l’organizzazione tradizionale dei nuclei familiari, specie quelli a struttura patriarcale, modificando la mentalità dei ragazzi più giovani. Non si trattò esclusivamente di un profondo cambiamento nello stile di vita di centinaia di milioni di persone, bensì del manifestarsi di nuove aspettative in un sistema di gerarchie storicamente radicate come quello dell’isolamento sociale e politico dell’universo femminile, ormai in via di emancipazione. Un altro elemento, terribile, aveva caratterizzato la Grande Guerra: un’intera generazione maschile, quella nata nel corso degli ultimi anni dell’Ottocento, fu letteralmente decimata a seguito della chiamata sotto le armi.

In relazione a tali cambiamenti, oltre alla necessità di ricostruire e ridefinire le frontiere di interi stati, il problema più grande si rivelò essere legato al reinserimento dei reduci nella società civile e nel mondo del lavoro. La grande mobilitazione determinata dai quattro anni di ostilità produsse fenomeni sociali come il principio di organizzazione comune, laddove la rivendicazione dei propri diritti diede luogo ad una maggiore partecipazione all’istituto della politica e ai movimenti sindacali. In detto contesto sorsero numerose associazioni di ex combattenti e di gruppi patriottici, che la guerra appena conclusa aveva trasformato in veri e propri elementi di pressione a difesa dei propri interessi. Di fatto, per gli ex soldati tornati dal fronte la situazione si presentava assai difficile. I governi post-bellici – soprattutto per motivi di dissesto finanziario – non mantennero le promesse fatte (sussidi, posti di lavoro, pensioni di invalidità) provocando risentimento e agitazioni sociali destinate a dare un nuovo corso alla storia dei paesi coinvolti nella guerra.

Dopo il 1918 crebbero le aspirazioni a un nuovo ordine sociale e politico più giusto, ispirato a principi di pace, nei quali il patriottismo potesse essere associato a valori di equità e miglioramento nel campo del lavoro, comprensivamente all’acquisizione di terreni da coltivare e all’aumento dei salari. Secondo il
presupposto salus populi, suprema lex, il sacrificio di intere generazioni avrebbe dovuto essere ripagato da un impegno diverso rispetto a quello dello scontro militare. I partiti videro crescere in maniera macroscopica i loro iscritti, mentre le modalità più diffuse per rivendicare le ragioni dei cittadini divennero le manifestazioni di massa e le adunate; di conseguenza, perse peso la tradizionale attività tipica dei governi liberali, legata da decenni ai ristretti circoli di notabili e di lobbyes che culminavano sistematicamente nelle azioni parlamentari. Sotto l’aspetto sociologico – considerando anche le trasformazioni apportate dalla Rivoluzione Russa – si trattò di un’alterazione epocale. E la politica, da allora, non sarebbe stata più la stessa.