Inutile negarlo: il voto inglese vola portato da due venti: il declino della sinistra, servito, nel caso, in salsa massimalista e il sovranismo, nel caso servito in salsa brexit.
Qualche democratico potrà anche veder confermate le proprie convinzioni che la sinistra non porta più da nessuna parte e, quindi, vedere accresciute le proprie aspirazioni  ad una svolta del centro sinistra verso direzioni più moderate e centriste.

Il fatto è che il vento  della brexit  si tradurrà in folate neo-neoliberiste in quei Paesi dove più drammatica è la crisi economica. I mercati stanno vedendo aumentare la competizione tra i soggetti economici a causa dell’incertezza sul futuro e di una contrazione dell’area di libero mercato a causa delle nuove politiche sui dazi.

Come reagiranno le imprese italiane? Potrebbero aumentare la propria competitività innalzando know-how, innovando le gamme di prodotto e/o le tecniche di produzione. Ma ci vorrebbero grandi investimenti e non pare che tiri quest’aria in un Paese con difficoltà di credito e costi di sistema (trasporti, contenzioso, energia) così elevati.
Potrebbero delocalizzare in cerca di futuro meno incerto e con costi e tassazioni più favorevoli.

Potrebbero anche cercare di modificare il mercato del lavoro per averne maggiore flessibilità e più alta produttività.

Credo che le nostre imprese, quelle che rimarranno, batteranno la seconda e la terza strada e già si comincia a leggere qua e là, dal Corsera al Sole, più di un articolo contenente pressioni in tal senso.

Queste politiche, facilitate dalla brexit, sono quasi costrette e le elezioni inglesi evidenziano quanto sarebbe perdente cercare di contrastarle – muro contro muro – à la Corbyn.

Per questo, prima che sia troppo tardi, occorrerebbe, con qualche correzione alla proposta di Landini, aprire un tavolo di concertazione  sindacato-imprese per un patto del lavoro (produttività in cambio di occupazione) e invitare, poi, il sistema politico, a partire dal governo, a un vero e proprio tavolo di coalizione.